Nel 1948 il famoso compositore polacco Andrzej Panufnik partecipò al concorso pubblico dell’Unione Sovietica per scrivere la “canzone del Partito”, componendo un brano che in seguito avrebbe definito «spazzatura». Pensava che se si fosse rifiutato di presentare qualcosa, l’Unione dei compositori polacchi avrebbe perso dei fondi. Vinse, ma non ne andò fiero.
Nella seconda metà degli anni ‘40, l’Unione Sovietica iniziava a espandere il suo controllo politico, militare, economico, perfino culturale, sull’Europa dell’Est. Quella parte di mondo che ricadeva nella sua sfera d’influenza era perfettamente conforme ai dettami del regime comunista: non solo come conseguenza di violenza e coercizione comandate dall’alto, ma anche come risultato di una pressione sociale, meno diretta e più rarefatta, che influenzava la vita di ogni singolo cittadino.
Le persone si sentivano obbligate, per motivi di carriera, per proteggere la famiglia o i loro amici, a conformarsi, a ripetere slogan in cui non credevano o a compiere atti di pubblico omaggio a un partito politico che magari privatamente disprezzavano.
Il mondo occidentale, anche in quegli anni, era molto diverso in termini di libertà personali e non solo. E lo è ancor di più oggi. Ma in alcuni luoghi si può percepire una dimensione illiberale che non dovrebbe appartenere all’Europa o agli Stati Uniti o altri posti in cui la democrazia è solida.
«Alcune persone hanno perso tutto, lavoro, soldi, amici, colleghi, senza aver violato un legge o le regole del posto di lavoro. Magari hanno infranto codici sociali legati a razza, sesso o altro. Alcuni hanno commesso errori di giudizio eclatanti, altri non hanno fatto proprio niente. Non è sempre facile dirlo» scrive la giornalista e scrittrice Anne Applebaum in un lungo articolo pubblicato sull’Atlantic.
Applebaum apre la sua analisi con una citazione de “La lettera scarlatta” per tracciare le differenze tra quel mondo descritto da Nathaniel Hawthorne nel suo romanzo e il più fortunato Stato di diritto in cui viviamo oggi, specificando che «le lettere scarlatte apparterrebbero al passato, ma non è proprio così».
È vero, spiega l’autrice, che oggi le sfumature e il beneficio del dubbio sono condizioni fondanti dello Stato di diritto, che si basa su tribunali, giurie, giudici e testimoni, sulla presunzione d’innocenza e le prescrizioni dei reati. Ma la sfera pubblica della rete – e dei social in particolare – è un luogo di conclusioni affrettate, ideologie estreme, argomentazioni troppo ridotte per essere efficaci, un luogo che non favorisce né sfumature né ambiguità e soprattutto non dimentica nulla.
«Il problema è che gli stessi valori di quella sfera online sono arrivati a dominare molte istituzioni culturali: università, giornali, fondazioni, musei. Queste a volte ascoltano le richieste di una rapida punizione che arrivano dal loro pubblico, così impongono l’equivalente di lettere scarlatte a vita a persone che non sono state accusate di nulla che assomigli lontanamente a un reato», scrive Applebaum, che più volte nel suo articolo ricorda che principi come quello del giusto processo sono alla base della democrazia liberale, insomma sono quelli che ci separano maggiormente dagli eccessi illiberali dei regimi.
Così come nell’Europa orientale del Dopoguerra a mettere pressione sulle persone contribuiva anche la cittadinanza, oggi – pur in assenza di censure, partiti unici e stalinismi – la paura delle reazioni di internet, dei colleghi o altri gruppi, stanno producendo risultati simili.
Applebaum ha intervistato moltissime persone che sono state vittime o attenti osservatori di improvvisi cambiamenti nei codici sociali – quelli negativi, ovviamente – in America: molti affermano di essere stati falsamente accusati, altri credono che i loro “peccati” siano stati esagerati o male interpretati da persone con altri interessi, a tutti sono state inflitte punizioni drastiche, misure draconiane che ne hanno cambiato la vita.
Ci sono quattro cose che accadono quando si viene accusati di infrangere un codice sociale o quando ci si ritrova al centro di una tempesta sui social media a causa di una cosa fuori posto: «La prima è che la gente smette di parlarti, ti evitano, diventi tossico», scrive Applebaum.
La seconda, strettamente collegata alla prima, è l’impossibilità di svolgere la propria professione anche se non si è stati sospesi o puniti o giudicati colpevoli. «Se sei un professore – si legge sull’Atlantic – nessuno ti vuole come insegnante o mentore e non puoi pubblicare su riviste specializzate. Ma non puoi lasciare il tuo lavoro, perché nessun altro ti assumerà. Se sei un giornalista, potresti scoprire che non puoi pubblicare affatto».
Qui Applebaum cita il caso di Ian Buruma, ex direttore della New York Review of Book che ha perso il lavoro per una disputa editoriale relativa al #MeToo, ha scoperto che molte delle riviste su cui scriveva da trent’anni non lo avrebbero più pubblicato.
«La terza cosa che succede è che cerchi di scusarti, indipendentemente dal fatto che tu abbia fatto qualcosa di sbagliato o meno. Solo che generalmente non basta», si legge nell’articolo. Il più delle volte le scuse vengono analizzate, esaminate in ogni dettaglio, quindi respinte. Un ex giornalista ha detto all’Atlantic che i suoi ex colleghi «non vogliono sostenere il processo di errore/scuse/comprensione/perdono, non vogliono perdonare. Vogliono punire e purificare. Ma la consapevolezza che qualunque cosa tu dica non sarà mai abbastanza è debilitante».
Dopo le scuse accade una quarta cosa: le persone iniziano a indagare, a investigare. Una persona, che vuole rimanere anonima, ha detto che credeva di essere indagata perché il suo datore di lavoro non voleva offrirle un’indennità di licenziamento e aveva bisogno di motivi aggiuntivi per giustificare il suo licenziamento.
Queste procedure segrete che si svolgono al di fuori della legge e lasciano l’imputato indifeso e isolato sono state un elemento di controllo nei regimi autoritari nel corso dei secoli, dalla giunta argentina alla Spagna franchista.
Durante la Rivoluzione culturale cinese, Mao diede agli studenti il potere di creare comitati rivoluzionari per attaccare e rimuovere rapidamente i professori. E gli studenti hanno usato queste forme non regolamentate di “giustizia” per perseguire rancori personali o ottenere vantaggi di qualche tipo.
«Questo schema si sta ripetendo negli Stati Uniti», si legge sull’Atlantic, ma il discorso si potrebbe ampliare anche ad alcune zone d’Europa. «L’America – prosegue l’articolo – resta a distanza di sicurezza dalla Cina di Mao o dalla Russia di Stalin. Le persone che lavorano nelle università o nei giornali e svolgono queste indagini o decidono procedimenti disciplinari, non lo fanno perché temono i Gulag. Molti lo fanno perché credono di migliorare le loro istituzioni: stanno creando un posto di lavoro più armonioso, portando avanti le cause dell’uguaglianza razziale o sessuale, mantenendo gli studenti al sicuro. Alcuni vogliono proteggere la reputazione della loro istituzione. Almeno due delle persone che ho intervistato credono di essere state punite perché un capo maschio bianco sentiva di dover sacrificare pubblicamente un altro uomo bianco per proteggere la propria posizione».
Ma ovviamente tenere gli studenti al sicuro, per fare un esempio, non significa poter violare il principio giusto processo. Non avrebbe senso.
Secondo un recente sondaggio, il 62% degli americani, inclusa la maggioranza di autodefinitisi moderati e liberal, ha paura di esprimere opinioni politiche.
La censura, l’oblio, le scuse strumentalizzate, sono comportamenti piuttosto tipici nelle società illiberali con codici culturali rigidi, in cui la comunità gioca un ruolo decisivo. Oggi le folle non sono quelle che vanno fisicamente in giro con torce e forconi, ma somigliano più ai sciami online organizzati su Twitter, Facebook o, a volte, sui canali Slack di un’azienda.
È accaduto ad esempio ad Alexi McCammond, dopo che è stata nominata caporedattrice di Teen Vogue: qualcuno ha ripescato e rimesso in circolo su Instagram vecchi tweet anti-asiatici e omofobi che aveva scritto un decennio prima, quando era ancora un’adolescente. McCammond si è scusata, ovviamente, ma non era abbastanza, ed è stata costretta a lasciare il lavoro ancor prima di iniziare.
«Si tratta di una giornalista giovane e in gamba, ma la sua adolescenza è tornata a perseguitarla. Penseresti che sarebbe una buona cosa per i giovani lettori di Teen Vogue imparare il perdono e la misericordia, ma per i nuovi puritani non c’è una prescrizione», si legge sull’Atlantic.
I parametri dettati da quello che Anne Applebaum definisce “nuovo puritanesimo” hanno finito per cambiare le regole sociali. «I professori – scrive l’autrice – erano soliti frequentare i loro studenti e i colleghi bevevano insieme dopo il lavoro, ma oggi può essere pericoloso. Questo cambiamento culturale è per molti versi salutare: i giovani sono ora molto più protetti dai capi predatori. Ma ha dei costi. Quando scherzi e flirt sono completamente vietati, scompare anche la spontaneità della vita d’ufficio».
La sensazione, in definitiva, è che sia scesa a zero la soglia di tolleranza per qualsiasi cosa. Ma come si possono dare giudizi così netti se la sensazione di disagio è inevitabilmente soggettiva? Il complimento spensierato di una persona è una microaggressione per un’altra; un’osservazione critica può essere interpretata come razzista o sessista; scherzi, battute, giochi di parole e tutto ciò che può avere due significati è, per definizione, aperto all’interpretazione.
Il lato positivo è che chi si sente a disagio oggi ha più soluzioni di fronte a sé: i dipendenti o gli studenti che sentono di essere stati trattati ingiustamente non devono più annaspare da soli. Ma questo ha un costo, ripete Applebaum: «Chiunque crei disagio accidentalmente, attraverso i propri metodi di insegnamento, i propri standard editoriali, le proprie opinioni o la propria personalità, può improvvisamente trovarsi dalla parte sbagliata di un’intera burocrazia dedita a eliminare le persone che mettono a disagio gli altri. E queste burocrazie sono illiberali».
Ma la lezione vera e imparziale (indifferentemente che le critiche arrivino da destra o da sinistra) è questa: nessuno, di qualsiasi età, in qualsiasi professione, è al sicuro. Nell’era di Zoom, fotocamere dei cellulari, registratori in miniatura e altre forme di tecnologia di sorveglianza a basso costo, i commenti di chiunque possono essere decontestualizzati e strumentalizzati; la storia di chiunque può diventare un grido di battaglia per i mob di Twitter; chiunque può quindi diventare vittima di una burocrazia illiberale.
E se questa forma di giustizia criminale può essere usata opportunisticamente da chiunque, per qualsiasi ragione politica o personale, le istituzioni che hanno facilitato questo cambiamento sono in molti casi quelle che un tempo si consideravano i custodi degli ideali liberali e democratici.
Ecco, quel tipo di sistema di pensiero non è nuovo. Già nel diciannovesimo secolo, il filosofo liberale John Stuart Mill, nel suo “Saggio sulla libertà” parlava non tanto delle restrizioni governative alla libertà umana, ma della minaccia posta dal conformismo sociale, dalla «richiesta che tutte le altre persone assomiglino a noi». Anche Alexis de Tocqueville ha scritto di questo tema: è stata una sfida seria nell’America del 19° secolo, e lo è di nuovo nel 21° secolo.
Se le burocrazie illiberali e le aggressioni a mezzo social prevarranno, scrittori e giornalisti avranno paura di pubblicare il loro pensiero, le università non saranno più dedicate alla creazione e alla diffusione della conoscenza ma alla promozione del comfort degli studenti e alla prevenzione degli attacchi sui social media.
«Il rischio – conclude Anne Applebaum – è diventare una società più piatta, più opaca, meno interessante, un luogo in cui i manoscritti rimangono nei cassetti per paura di giudizi arbitrari. Le arti, le discipline umanistiche e i media diventeranno rigidi, prevedibili e mediocri. I principi democratici come lo Stato di diritto, il diritto a un processo equo, persino il diritto al perdono, appassiranno».