Che nel panorama del giornalismo e in particolare della critica del vino l’Italia abbia un ruolo tutt’altro che centrale è cosa piuttosto risaputa. Le radici di questo fenomeno così recente, che si è sviluppato soprattutto negli ultimi 40 anni sono da ricercarsi nei paesi anglosassoni, da sempre i più importanti quando si parla di mercato del vino. Non è una questione solo linguistica: Londra e NYC sono state per decenni, e sono tutt’ora insieme a un pugno di altre città del cosiddetto Far East, crocevia per i maggiori mercanti di vino del mondo. I posti dove trovare e poter assaggiare qualunque vino, tanto italiano e francese, quanto cileno e neozelandese.
Legare però il fenomeno giornalistico a una sola questione geografica sarebbe sbagliato: la critica di stampo anglosassone, quella che si caratterizza per le descrizioni dei vini così asciutte tipiche del WSET (la Wine & Spirit Education Trust, la più importante scuola del vino del mondo) e per i punteggi in centesimi, ha nel suo DNA un pragmatismo che ci è lontano, che non ci appartiene. Prendendola un po’ larga si potrebbe infatti dire che grande parte del giornalismo del vino italiano si rifà a quella che era l’impostazione di Mario Soldati, che con il suo Vino al Vino fu scrittore del vino ante litteram: una narrazione letterata, profonda, capace di andare oltre il bicchiere e di intingersi di contaminazioni culturali anche molto lontane dal semplice processo produttivo.
Non tutta, tante le eccellenti eccezioni ma insomma, ci siamo capiti.
Non stupisce quindi che la facilità di fruizione tipica del giornalismo del vino anglosassone, unita alla lingua, abbia favorito nel tempo la nascita di testate capaci di raccogliere tra le proprie pagine molte decine di migliaia di assaggi con relativi punteggi, oltre che analisi molto approfondite su praticamente ogni territorio di vino del mondo. Non solo grandi magazine come Wine Spectator o Decanter e le relative redazioni, ma anche progetti inizialmente più contenuti come Robert Parker con il suo Wine Advocate, Antonio Galloni con il suo Vinous, James Suckling e Tim Atkin con i siti che portano i loro nomi fino alla regina, la più importante wine writer del mondo: Jancis Robinson.
L’ho presa lunga ma era di lei che volevo scrivere, soprattutto della recente notizia relativa all’acquisizione del suo sito da parte di Recurrent Ventures, una digital media company statunitense sostenuta da ingenti capitali provenienti da vari fondi di investimento. Il sito di Jancis, con i suoi 4 impiegati a tempo pieno e i suoi 13 collaboratori in giro per il mondo, si unisce così a un portafoglio di 17 testate tra le quali spicca il popolare sito di ricette Saveur. Lei stessa in occasione della divulgazione della notizia, le cifre della transazione non sono note, ha dichiarato di aver iniziato a pensare di vendere il sito circa un anno fa. Un po’ per concentrarsi sulle degustazioni e sulla scrittura, un po’ per espandere la sua audience in mercati in parte ancora inesplorati. Su tutti, gli Stati Uniti: Recurrent ha dichiarato che la nuova proprietà sarà particolarmente focalizzata sulla crescita dei lettori proprio negli USA, mercato che oggi rappresenta poco meno del 30% degli abbonamenti (la stessa quota del Regno Unito). Costo della sottoscrizione annuale 100 euro, poco meno di Netflix.
JancisRobinson.com nasce nel 2000, poco dopo il 50esimo compleanno della sua fondatrice. Lei, un fenomeno: inizia a scrivere nel 1975 come “assistant editor” per il magazine Wine&Spirit. Nel 1984 diventa Master of Wine, il più importante e ambito dei titoli del vino, la prima persona fuori dal mondo del “trade”, del commercio. La prima edizione del suo The Oxford Companion to Wine, pluripremiata enciclopedia del vino oggi all’ennesima ristampa, esce nel 1994. Dal 2003 firma insieme a Hugh Johnson The World Atlas of Wine, bibbia del vino mondiale nelle librerie dal 1971. Collaboratrice fissa del Financial Times per molti anni, è però con il suo sito che diventa straordinariamente influente. Il suo approccio, lontano da quello americano di Robert Parker e in generale più affine ai gusti europei, diventa nel tempo sempre più centrale. Una peculiarità resa possibile anche da un team particolarmente attento a tutte quelle piccole novità che via via portano il vino ad andare in una direzione invece che in un’altra. Senza esagerare si può dire che se JancisRobinson.com almeno a livello numerico non è il più popolare sito del vino del mondo è certamente il più interessante per l’approccio critico che è in grado di veicolare.
Il sito JancisRobinson.com non ha mai ospitato pubblicità e si è sempre sostenuto solamente grazie agli abbonati. Sin dal 2001, caso pressoché unico nel panorama editoriale del vino, era stata inserita una sezione che si chiamava “Purple Pages” non tanto per il colore del vino quanto per quello delle pagine riservate agli iscritti. Oggi, 2 decenni dopo, il grosso dei contenuti del sito si trova dietro a un paywall, comprese tutte o quasi le note di degustazione, un archivio enorme che supera i 200mila vini. Soprattutto, il registro della scrittura su JancisRobinson.com è sempre stato quello della sua fondatrice: esperto e colloquiale, il tono di chi sta spiegando qualcosa di importante a un caro amico. È anche per questo che la comunità degli iscritti al sito è particolarmente coesa e attiva all’interno dei forum riservati.
Un valore enorme, che con ogni probabilità Jancis ha monetizzato proprio con questa transazione. Non abbiamo alcun dato su cui basarci ma è plausibile immaginare che la “vita media” degli abbonati, il tempo che rimangono cioè membri del sito, sia più alta della media del settore. Oltre al fatto che si tratti di donne e uomini con una forte capacità di spesa dislocate e dislocati in alcuni dei mercati più importanti del mondo. Un database pazzesco, a cui ogni compagnia che opera nel mondo dei media digitali vorrebbe avere accesso. Probabilmente è soprattutto questa la forza di JancisRobinson.com: una comunità di abbonati che crea grande marginalità, con grossi spazi di crescita in mercati del vino sempre più centrali.
Inutile dire che in Italia non esiste niente di neanche lontanamente paragonabile. È sicuramente più facile spiegare le ragioni di qualcosa che non è successo rispetto a quelle di qualcosa che non succederà, ma appare evidente quanto un audience molto ridotta e una cultura lontana dal modello a sottoscrizione o dal “pay per read” siano elementi centrali nel cercare di comprendere il panorama del giornalismo e della critica del vino in Italia. I sistemi ad abbonamento non solo qui da noi sono molto recenti, ma faticano anche ad imporsi a livello generalista, figuriamoci in settori tanto verticali quanto quelli della critica del vino. C’è chi ci prova, ancora con numeri molto piccoli, ma lo standard è quello che guarda alle inserzioni pubblicitarie come unica via da percorrere per trovare una certa stabilità, con tutto quello che questo comporta in termini di commistioni e di conflitti di interesse. Ormai (forse) non ci facciamo più caso, ma per la stragrande maggioranza delle testate del vino italiano è naturale scrivere articoli e approfondimenti su quelle cantine che acquistano spazi sui loro siti o sui loro magazine. Va tutto bene? Neanche un po’, anche perché una delle conseguenze indirette di un sistema come questo riguarda la sempre maggiore perdita di credibilità delle testate stesse. Se gli inserzionisti sono contenti e gli editori altrettanto sono i lettori a rimanere sullo sfondo e ad assistere a uno spettacolo che li vede di rado protagonisti. Come pensare di riuscire a rovesciare questo schema e monetizzare una credibilità che non esiste, o quasi? Come immaginare di creare delle comunità di lettori appassionati, che si riconoscono nei valori di una specifica testata tanto da decidere di investire su di essa? Se di siti come JancisRobinson.com nel mondo ce ne sono pochi, in Italia è difficile immaginare anche solo qualcosa di molto più piccolo, tale è la povertà del panorama giornalistico a pagamento del vino, oggi.
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