Yin e YuanCosa (non) deve fare un imprenditore per piacere al Partito comunista cinese

Il ritratto ideale per Xi Jinping è quello di Zhang Jian, filantropo vissuto nell’800. Come spiega Simone Pieranni nel suo ultimo libro “La Cina nuova” (Laterza), la riscrittura storica attuale lo ha trasformato in simbolo di cura e responsabilità per la nazione. Un modello cui ha dovuto sottoporsi anche Jack Ma

AP Photo/Ng Han Guan

Ma allora, visto il passato e visto il presente, ovvero il tentativo da parte del Partito comunista di ostacolare le grandi aziende private come Alibaba, esiste un modello di imprenditore che piace e soddisfa Xi Jinping e la dottrina del Partito comunista cinese? La risposta è positiva e va ricercata nella vita di una persona che fuori dai confini cinesi è pressoché sconosciuta. Si tratta di Zhang Jian, imprenditore e filantropo vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. La sua vita ci permette di cogliere gli elementi essenziali affinché un imprenditore possa trovare la stima e il permesso di agire da parte del Partito comunista.

Per introdurre Zhang, bisogna premettere che il simbolismo riveste un ruolo decisamente importante anche oggi in Cina. La leadership cinese ha ormai compreso come le logiche dello storytelling siano fondamentali per contribuire a una narrazione della Cina che sia consona ai propri desideri. Quando Trump, ad esempio, annunciò i dazi contro la Cina nel 2019, il presidente cinese Xi Jinping non rispose, a parole. Il giorno dopo, però, i media statali erano gonfi di pagine con il presidente cinese in visita a uno stabilimento per la lavorazione delle terre rare. Senza dire una parola Xi Jinping aveva lanciato un messaggio molto chiaro agli Stati Uniti: potete pure metterci i bastoni tra le ruote, ma se chiudiamo il rubinetto delle terre rare, come la mettiamo?

Analogamente, nel novembre del 2020, mentre i media di tutto il mondo si chiedevano che fine avrebbero fatto Jack Ma e Alibaba, colpiti in quei giorni dalla volontà del Pcc di limitarne il campo d’azione, Xi Jinping si faceva fotografare dai media locali in visita al museo di Zhang Jian.

In quel caso il numero uno cinese decise di parlare sottolineando che «gli imprenditori eccezionali devono avere un forte senso di missione e responsabilità per la nazione e allineare lo sviluppo della loro impresa alla prosperità della nazione e la felicità delle persone». Messaggio piuttosto chiaro.

Zhang Jian rappresenta l’esempio di imprenditore ideale per il Partito comunista: superò gli esami della dinastia Qing (l’ultima a regnare in Cina) per diventare un funzionario, entrando così in una ristretta élite. Con il sostegno dello Stato, fondò quello che oggi potremmo definire un consorzio tessile di successo e svariate altre imprese: in pratica, quando il governo Qing decise di «invitare» i funzionari ad avviare imprese industriali, Zhang si offrì volontario per fondare e gestire una filanda di cotone. Il governo sostenne i suoi sforzi, regalandogli – in pratica – un monopolio, tanto che Zhang si allargò ben presto ad altri settori.

Elisabeth Köll è una storica dell’Università di Notre Dame e su Zhang ha scritto un libro. Intervistata dal «Financial Times», ha raccontato che, osservando i ritratti dell’epoca, «appariva a suo agio nei tradizionali abiti da studioso, così come in abiti da lavoro occidentali preferiti dai moderni riformatori dell’epoca. Era molto abile nel muoversi avanti e indietro tra due mondi. Lo definirei un conservatore che, durante un periodo davvero difficile e disordinato, voleva stabilità e sviluppo pacifico».

Zhang fu un imprenditore e un filantropo che – una volta ritiratosi nella città di Nantong – contribuì al suo sviluppo, fondando musei e opere assistenziali. La fama di Zhang – ha raccontato Köll al «The Diplomat» – «si basa sul suo successo imprenditoriale come fondatore della prima grande azienda industriale cinese con investimenti privati nel 1895, che nel 1905 divenne una delle prime società legalmente registrate con lo status di responsabilità limitata. I suoi numerosi enti di beneficenza, che vanno da scuole, biblioteche, orfanotrofi, una casa di lavoro per i poveri fino ai lampioni elettrici e al primo museo in stile occidentale della Cina nella città di Nantong, hanno contribuito a determinare la sua reputazione di imprenditore patriottico e filantropo illuminato tra le élite cinesi e gli stranieri».

Ma anche Zhang, prima di diventare l’imprenditore preferito dal Partito comunista, ha dovuto passare attraverso le «fasi» della storia recente cinese, a dimostrazione di quanto il passato – come abbiamo visto nel capitolo «Memoria» – sia piuttosto malleabile in Cina.

Durante la Rivoluzione culturale, infatti, Zhang Jian fu definito «nemico di classe» e «spietato capitalista» sfruttatore dei lavoratori nelle sue fabbriche. Tutto questo è cambiato negli anni Ottanta, quando le prime riforme economiche e l’attenzione del governo sulla promozione di iniziative imprenditoriali locali hanno portato Zhang ad essere elogiato per il suo contributo all’indipendenza economica della Cina tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo.

Quando l’industrializzazione e la modernizzazione economica divennero questioni centrali delle riforme economiche della Cina negli anni Novanta, l’imprenditoria privata di Zhang e il successo dell’azienda furono celebrati dai governi locali e nazionali come un esempio dei primi risultati della Cina nello sviluppo economico, nell’industrializzazione e nella modernizzazione. Non solo dunque imprenditore ma anche innovatore.

Per di più Zhang era stato un letterato, un funzionario: una persona quindi con uno spiccato senso dello Stato e dei poteri che può esercitare, nonché del suo fine ultimo, ovvero garantire il benessere alla popolazione. A quel punto in Cina cominciarono a spuntare ovunque pubblicazioni su Zhang, tanto che in qualsiasi libreria cinese ancora oggi si trovano numerose biografie e volumi sulle sue attività. In pratica, l’invocazione di Zhang come modello per gli imprenditori cinesi ben si adatta al desiderio dell’attuale governo di promuovere lo sviluppo del business privato cinese, cercando allo stesso tempo di rafforzare il proprio controllo sul settore mercantile.

Quindi, Jack Ma ha ricevuto il messaggio che Xi Jinping ha voluto lanciare a lui e non solo a lui? Sembrerebbe proprio di sì: dopo tre mesi di assenza dalla scena pubblica – con rumors di ogni tipo che davano perfino Jack Ma prigioniero in qualche squallida prigione cinese – il fondatore di Alibaba è riapparso nel gennaio 2021, grazie a un incontro virtuale, guarda caso, con un centinaio di insegnanti di scuole situate in zone rurali molto arretrate rispetto alle metropoli cinesi. Jack Ma sembra avere collegato molto bene tutti i puntini, perché nel suo intervento ha sottolineato la necessità di fare beneficienza e di contribuire ad aiutare chi è rimasto indietro.

E dire che Jack Ma, in realtà, non aveva lesinato effusioni nei confronti del Pcc. Aveva pubblicamente ammesso di avere la tessera del Partito e, nonostante avesse invitato i suoi dipendenti «a esserne innamorati ma senza sposarlo», ha finito per collaborare in molti modi con il governo, tanto quello cittadino di Hangzhou, dove Alibaba ha la sede, quanto quello centrale, sviluppando tra l’altro un’applicazione per promuovere il pensiero politico di Xi Jinping. Non è bastato.

Per ora però, se non altro, è ancora a piede libero al contrario di molti imprenditori che negli ultimi quindici anni sono finiti in carcere o giustiziati a seguito di condanne a morte. In Cina, infatti, «arricchirsi è glorioso», come diceva Deng Xiaoping, ma entro certi limiti, proprio come fece Zhang. Altrimenti, diventa inesorabilmente «pericoloso».

da “La Cina nuova”, di Simone Pieranni, Laterza, 2021, pagine 208, euro 16

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