Il peggio è passatoPerché è già finita la crisi mondiale degli approvvigionamenti

I dati mostrano che il traffico che ingolfava i porti di tutto il pianeta, dagli Stati Uniti alla Cina, sta finalmente iniziando a diminuire, permettendo alle compagnie di smaltire gli arretrati accumulati in questi mesi

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Il peggio è passato. La crisi mondiale delle catene di approvvigionamento sembra arrivata a un punto di svolta. Sta iniziando una fase nuova, di ripresa, una transizione in cui si prova a tornare alla normalità dopo settimane difficili. Si nota, infatti, che il traffico che ingolfava i porti in tutti i continenti sta iniziando a diminuire e le navi portacontainer riprendono lentamente i normali ritmi di lavoro.

Il segnale incoraggiante arriva da un articolo del Financial Times. L’autore, John Dizard, conosce bene il settore navale e spiega che ci vorrà ancora un po’ prima di recuperare il terreno perso nell’ultimo periodo, ma la strada è quella giusta: «Ho controllato così tanti dati sui porti che ormai nei miei sogni sono munito di lettore di codici a barre. Le azioni delle principali compagnie che trasportano container – quelle quotate, come Maersk, Zim Integrated Shipping Services e Danaos Shipping – sono tutte diminuite più o meno nello stesso momento alla fine di settembre».

Alcuni dati aiutano a capire l’inversione di rotta: il traffico di container attraverso il porto di Amburgo aveva raggiunto il picco nel primo trimestre del 2021; nel porto di Rotterdam, i container in arrivo sono aumentati solo dello 0,7% tra gennaio e marzo, secondo gli ultimi dati resi pubblici, vuol dire che non poteva esserci molto lavoro arretrato da recuperare.

E poi, ancora, il numero di container carichi in arrivo a Long Beach, in California, ha raggiunto il picco a maggio, a quota 444.736. Lo stesso dato ad agosto era già sceso a 407.426. Allo stesso modo, i container vuoti in uscita da Long Beach hanno raggiunto il picco di 313.070 a maggio, scendendo a 268.505 ad agosto.

John Dizard ha incontrato Lars Jensen, specialista in container con Vespucci Maritime a Copenhagen, azienda andata complessivamente molto bene durante la pandemia. «Sono d’accordo con te che è finita la crisi, salvo un altro giro di chiusure di porti in Cina legate al virus», ha detto Jensen al Financial Times.

Ma l’ipotesi di nuove restrizioni, quelle temute dagli addetti ai lavori, oggi sembra davvero improbabile. In caso di peggioramenti – non particolarmente gravi – del quadro sanitario, la Cina potrebbe stabilire piani di controllo del Covid-19 leggermente più morbidi rispetto alla “tolleranza zero” che ha adottato nella prima fase della pandemia.

Di sicuro questa crisi sarà un’occasione per rivedere alcune delle dinamiche tipiche del settore navale, si legge sul quotidiano economico. «La prossima tendenza del settore – scrive John Dizard – riguarda gli armatori, gli operatori portuali e i responsabili della logistica, che nei prossimi anni punteranno forte su un’automazione più accentuata, e sull’analisi e lo scambio sistematico dei dati a disposizione».

È possibile che il mondo dello shipping sia pronto ad aggiornarsi in alcune cose. E forse ne avrebbe bisogno più di quanto non siano disposti a recepire gli addetti ai lavori. Un articolo pubblicato sul Guardian, firmato da Kim Moody, offre uno spunto di riflessione proprio sulla possibilità di ripensare alcune dinamiche dell’industria navale, a partire dalla politica just-in-time di ispirazione post-fordista.

L’ultimo anno ha mostrato che basta davvero poco per creare un problema nelle catene di approvvigionamento di molti settori: lo shock dei prezzi sui mercati globali del gas naturale danneggia fatalmente i piccoli fornitori di energia, lasciando molti consumatori senza riscaldamento; un incendio mette fuori uso il cavo che invia elettricità dalla Francia al Regno Unito, facendo schizzare il prezzo delle bollette e rischiando di lasciare molte case al buio; la nave portacontainer Ever Given rimane bloccata nel canale di Suez per sei giorni e si crea un imbuto nella distribuzione di moltissimi beni in tutta Europa.

«Ciò che questi incidenti hanno in comune è la velocità con cui un singolo evento può interrompere le catene di approvvigionamento che attraversano il mondo. Quasi sempre, quando ordini qualcosa online, questa viene trasportata attraverso una rete di fabbriche, ferrovie, strade, navi, magazzini e fattorini che insieme formano il sistema circolatorio dell’economia globale. Questa infrastruttura strettamente calibrata è progettata per il moto perpetuo. Quando uno di questi collegamenti si interrompe l’impatto sulle catene di approvvigionamento just-in-time si avverte immediatamente», si legge sul Guardian.

L’espressione just-in-time nasce da un ingegnere della Toyota degli anni ‘50, Taiichi Ohno, che si ispirò al lavoro di Henry Ford per creare un modello di catena di approvvigionamento capace di eliminare scorte, lavoratori extra e tempi morti nella produzione e nella circolazione delle merci.

È un sistema che riduce l’importo speso dalle aziende per mantenere i beni e pagare la manodopera aggiuntiva. Lo schema è certamente molto efficiente, ma, conclude il Guardian, «il nostro mondo just-in-time è sempre più soggetto a crisi: i programmi di spedizione dei container sono stati inaffidabili dall’inizio della pandemia, l’assenza di scorte aumenta i rischi di carenze quando arriva una crisi. In questo modo il regime dei beni di consumo a basso costo diventa sempre più difficile da sostenere».

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