Le economie di gran parte del mondo globalizzato sono in lenta ricrescita, eppure hanno ancora un grosso problema: scarseggiano le risorse per gli approvvigionamenti. Questo provoca rallentamenti nella catena di produzione: tutto è interconnesso, per cui se mancano le materie prime poi è difficile costruire semilavorati, a loro volta essenziali per la componentistica di prodotti più complessi (le automobili, per esempio).
I problemi di approvvigionamento generano incertezza soprattutto per i paesi più ricchi, che a loro volta espongono a rischi maggiori anche le prospettive economiche dei paesi più poveri, che garantiscono i rifornimenti di materiale. Come spiega in questo articolo del New York Times, carenze e ritardi non sono contingenze temporanee che accompagnano la ripresa degli affari, ma qualcosa di più insidioso, che potrebbe durare fino al prossimo anno. Ciò porterebbe a un aumento dei prezzi di un numero sempre maggiore di materie prime, necessarie alla produzione di macchinari indispensabili a gran parte delle industrie che muovono l’economia.
Le scarsità di queste materie – dai materiali da costruzione, ai chip per computer, ai semi di soia – invece di estinguersi con il lento rialzo dell’economia, è anzi aumentata, generando dei ritardi con effetti a catena disastrosi per l’economia. Ritardi che implicano costi crescenti e sono ancora un tormento per i mercati di grandi e piccole aziende.
Nonostante la forte domanda di prodotti, le fabbriche si vedono costrette a limitare le loro operazioni a partire dall’impossibilità d’acquisto della materia prima necessaria. Salgono i tempi di attesa per materiali di prima necessità per le industrie – settimane, spesso mesi – così come sale il prezzo a cui gli stessi materiali vengono venduti. La carenza e ritardi di alcuni prodotti hanno reso impossibile la produzione di altri. Un cane che si morde la coda.
Toyota, per esempio, di fronte a una costante mancanza di chip per computer, ha dovuto annunciare che questo mese la sua produzione globale di auto si sarebbe ridotta del 40%. Tra le vittime di questa crisi non ci sono solo le aziende, ma anche il settore della salute: l’NHS, il sistema sanitario britannico, ha recentemente comunicato ritardi nelle consegne delle analisi del sangue dovuti al deficit di attrezzature necessarie – la peggiore dal 1977.
Il problema deriva in gran parte dal surplus di ordini dei consumatori negli Stati Uniti e in altri paesi ricchi: la pandemia ha aumentato i consumi di beni come i videogiochi e le cyclette, sovraccaricando le spedizioni ed esaurendo le forniture di molti componenti, in particolare i microchip.
Un aumento inaspettato di ordini di televisori in Canada o in Giappone non fa che aggravare la già forte carenza di chip, che tuttavia sono utilizzati anche per le automobili. Questo obbliga le case automobilistiche a rallentare le produzioni delle loro linee dalla Corea del Sud, alla Germania, al Brasile; se a ciò si somma la nave merci bloccata per una settimana nel canale di Suez a fine marzo, che ha interrotto il traffico tra Europa a Asia, in una via d’acqua da cui transita circa il 12% del commercio mondiale, ecco che si genera altro caos.
Come conseguenza di tutto questo molte aziende hanno ridotto le loro scorte, abbracciando la produzione snella per tagliare i costi.
Goodman e Bradsher nel loro pezzo raccontano un’esperienza a dir poco rara ai giorni nostri, specie per una parte di mondo da sempre abituata ad avere tutto e subito: niente più scorte, rallentamenti cronici, tempi di consegna lunghissimi e nessuna idea di quando la situazione migliorerà. Attraverso la raccolta di testimonianze di esperti e dirigenti di aziende europee e statunitensi, i due autori delineano un quadro esaustivo dell’effetto domino generato dai rallentamenti di produzione di materia prima.
Secondo Alan Holland, amministratore delegato di Keelvar, società irlandese che produce software in gestione delle catene di approvvigionamento, «non c’è una fine in vista, tutti dovrebbero supporre che il periodo di blocchi e rallentamenti sarà lungo».
«Non abbiamo ancora toccato il fondo,» dichiara analogamente in Inghilterra Tony Hague, dirigente dell’azienda PP Control & Automation, che progetta e assembla macchinari utilizzati in diverse industrie.
Insomma, il primo mondo in pandemia ha imparato ad avere paura di rimanere senza viveri, così ha aumentato gli ordini di ciò che prima acquistava a ritmi molto più bassi. Per dirla con le parole di Willy C. Shih, esperto di commercio internazionale alla Harvard Business School, «c’è questo circolo vizioso in cui gli istinti dell’uomo sono in grado sia di rispondere che di aggravare il problema. Non vedo un miglioramento fino al prossimo anno».