Tout est pardonné. Da qualche tempo, quando vedo Luigi Di Maio concionare dietro microfoni e su podi, palchi e tribune non provo più nient’altro che stima, quel genere di ammirazione latentemente invidiosa che si riserva a un parente non brillante che ha fatto una carriera prodigiosa. Ma di invidia, per il ministro Di Maio, mi sembra di non averne, anzi ormai ci vedo insieme a sorseggiare una birra ghiacciata in spiaggia al tramonto, due amici di vecchia data nell’indolenza dell’estate italiana.
Meraviglioso ragazzo tra i «ragazzi meravigliosi» di Beppe Grillo, è entrato in Parlamento nel 2013, una vita fa, da ventiseienne, ne ha vice-presieduto un ramo fin da subito e anno dopo anno, tra le accuse e gli sberleffi dei suoi copiosi detrattori, è diventato una presenza fissa, quasi scontata della nostra politica, un habitué incasellato per sbaglio nella colonna dei garanti delle istituzioni. Se non proprio un Andreotti (scusaci, Giulio), almeno un Forlani.
La lista delle cose che ha passato indenne nella sua scalata al Palazzo è posta giustamente a introduzione del suo nuovo libro, “Un amore chiamato politica” (Piemme): «Due elezioni vinte, la formazione di tre governi e la crisi di due; l’elezione e le dimissioni da capo politico del Movimento 5 stelle; gli incontri con Trump e Merkel; la prima zona rossa Covid dell’Occidente; i giorni del ritiro delle truppe dall’Afghanistan». Alla domanda che sorge spontanea anche a lui stesso rileggendola – “perché Di Maio?” – si può finalmente dare una risposta: tutt’altro che incapace, inadatto e inopportuno, il ministro degli Esteri italiano si è dimostrato un Highlander in grado di mettersi in tasca le nostre risate e tirare dritto fino al prossimo esecutivo. «Giggino il bibitaro», se mai è esistito, era una macchietta, ma «Giggino l’Immortale» è realtà.
Il libro, colmo dei refusi, subordinate creative e tempi verbali da Pop Art specialità della casa, è quel che è, come quasi tutte le opere di politici di primo piano: a tratti sembra di leggere un Liala con Giuseppe Conte al posto dell’amata. Però ci sono anche cose meritevoli, o almeno di interesse. Dice ad esempio Di Maio l’Immortale: «In questi anni in Parlamento ho scoperto che perfino non scegliere in un dato momento è esso stesso una scelta». In quest’ottica, a ben pensarci, potrebbe essere considerato il ministro degli Esteri più decisionista di sempre, dato che ha scelto ripetutamente di non scegliere sui principali dossier degli ultimi anni, dall’uccisione di Giulio Regeni alla Libia, da Hong Kong e la Cina fino al suo recente capolavoro estivo, cioè la presa di Kabul dei talebani gestita – diciamo – giocando a biglie sulla spiaggia di Porto Cesareo.
C’è, ovviamente, spazio per la formazione nel suo bildungsroman: deve molto, dice, a un suo professore, Antonio Cassese del liceo classico di Pomigliano d’Arco, il quale l’ha «educato ad avere rispetto per le istituzioni e per lo stato», e si immagina il povero tapino Cassese non riuscire a trattenere la collera e scagliare il tomo fuori dalla sua finestra pomiglianese, al pensiero che a scriverlo è pur sempre l’estensore di quella modesta proposta di mettere sotto impeachment il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per futili motivi, nonché il leader del partito che voleva, si sa, aprire il Parlamento qual confezione di pesce sott’olio.
I pedagoghi di Di Maio che l’hanno portato ad avvicinarsi alla res publica «continuavano a ripetermi che non si tratta di una banale lotta fra un colore e l’altro», e lui deve aver travisato, pensando che la questione cromatica non fosse meritevole di alcuna importanza: si può governare con tutti, volendo. Basta scegliere di non scegliere troppo.
Due parole di autovalutazione caratteriale: «Sono sempre stato un tipo molto cauto, attento alle sfumature e pieno di dubbi». Il che obiettivamente coglie di sorpresa, a meno di voler definire «cauto» l’ergersi da un balcone e, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, annunciare tripudiante: «Abbiamo abolito la povertà!» (però ora dice di essersene pentito).
La seconda volta che incontra Beppe Grillo (la prima è a una comparsata del comico a Pomigliano per le comunali del 2009, comunque meritevole: «Immaginate me, giovane di provincia, jeans e camicia, capelli normali, occhi normali, mai fumato una sigaretta nella vita, ligio e composto». E viene da chiedersi come il ministro si immaginasse gli occhi delle persone di mondo prima di allora) è a Milano «dopo i primi tre mesi di legislatura» del 2013: sostanzialmente par di capire che Beppe il meraviglioso ragazzo l’ha frequentato ben poco.
Siamo nella fase concitata e disperata in cui i grillini sono dissezionati dai media come fossero alieni, che comunque a Roma un po’ sono. Sede dell’incontro: Casaleggio Associati Srl. Beppe e Gianroberto «visti uno accanto all’altro erano come lo yin e lo yang», scrive il cauto autore, «il giorno e la notte, il silenzio e il frastuono. Questo eterno dualismo si incrociava e si scambiava dentro i loro spiriti». Sembra “Siddharta”.
Grillo, per fare un accostamento cinematografico, «è una sorta di Jep Gambardella della “Grande bellezza“ di Sorrentino: non ha solo il potere di organizzare e partecipare al Movimento, Beppe ha il potere di farlo fallire». E qui, non so voi, leggo una richiesta d’aiuto appena celata. Facciamo come coi prigionieri in Corea del Nord: Luigi, se serve sbaglia il tempo verbale di tre subordinate nelle prossime due pagine, noi capiremo.
L’opera è disseminata di sintomi di un «eterno dualismo» che è tutto interno al suo autore, in ogni caso: da una parte quello che entra per la prima volta nella Sala della Regina a Montecitorio trattenendo il fiato e dicendosi «in quella sala […] adesso era finalmente arrivato il popolo», tra una bordata e l’altra ai «partiti tradizionali»; dall’altra quello che una dozzina di righe dopo definisce Dario Franceschini «uno dei politici più lucidi e intelligenti che abbia mai conosciuto»; prima Di Maio ricorda commosso la schiera di «insegnanti laureati ascensoristi, operai ingegneri avvocati commercialisti» presentatasi «come una colonna di commilitoni, una forza di pace» davanti al Parlamento, dall’altra ha «compreso che non basta dire che “uno vale uno” e che è pericoloso lasciar credere che chiunque possa occuparsi della cosa pubblica. Non tutti sono in grado di rappresentare dignitosamente le istituzioni»; nel racconto della concitata genesi del primo governo Conte, l’ipotesi di un esecutivo con la Lega passa nel giro di poche ore da un capillare e stentoreo «mai con loro» a Salvini al «Lega sia» certificato da Grillo dopo il niet di Renzi («non nego che sentii una piccola punta di rivalsa», ammette Di Maio).
Ah, sì, Giuseppe Conte. È già mitica la descrizione agiografico-verdoniana del suo manifestarsi alle consultazioni Lega-Cinque stelle: «Al suo arrivo in hotel indossava una camicia, il primo bottone sbottonato, la sua abbronzatura era forte, decisa, molto estiva e gli conferiva un’aria spensierata. Veniva dal Circeo, o da Gaeta, non lo ricordo con esattezza». Chissà se si era imbarcato su un cargo battente bandiera liberiana. Citando ancora: «Uno strettissimo collaboratore di Salvini, anche lui presente, si intromise e avanzò un timore, che poi si sarebbe rivelato profetico: “Matteo, sei sicuro? Non è che poi questo ci diventa il Macron italiano?”». Quando uno è profetico, è profetico (nessuna riga, invece, su quante se ne sono dette e fatte lui e Conte durante il Conte due).
Di Maio, che è un grande italiano, ha provato la lotta e il governo e ha scelto la dimensione più adatta a lui. Non c’è niente di male, anzi forse è questo a rendermelo simpatico: oltre gli equilibrismi di una certa complessità – anche sintattica – in cui deve cimentarsi per non scontentare la sua origine, è come se lo vedessi tamburellare le dita sulla poltrona in pelle umana del suo ufficio in piazzale della Farnesina, sguardo sognante ma anche «cauto», con la mente fissa sulla prossima trattativa, il prossimo compromesso, il prossimo governo, la prossima stagione balneare.
Quando chiede scusa all’ex sindaco di Lodi Uggetti per le gogne del fu Movimento dei vaffa o dice ai giornali «siamo una forza moderata e liberale», anzi pure «europeista», è impossibile avercela con lui: è semplicemente uno che ha capito come va e ora nuota con la corrente. Ecco l’approdo italianissimo del bildungsroman dimaiano.
Scriveva Antonio Polito sul Corsera alla fine del 2018, ai tempi del primo governo Conte, sul rapporto del nostro col bestiale e allora inarrestabile Matteo Salvini: «Li chiamavano i Dioscuri. Con i suoi studi classici Di Maio avrebbe dovuto capire subito che dietro c’era il trucco. Esisteva infatti una sola grande differenza tra i due gemelli del mito: uno era immortale e l’altro no. E tra lui e Salvini dovrebbe essere chiaro chi è che ha a disposizione una seconda vita politica, in caso questa finisca prematuramente». E invece, immortale è chi immortale fa.