Nella forza del (fu) Movimento Cinque Stelle sta anche il motivo della sua impossibilità di vivere un’altra vita. Dov’era la forza del grillismo? In una parola, nella sua radicale originalità figlia delle fantasie di un comico e di un ingegnere visionario. Ma come può pensare di andare avanti un M5s che non abbia più quel crisma populisticamente anti sistema – per quanto discutibile e finanche esecrabile – che si acconci invece a vestire i panni del compagno di strada di un partito ormai grande il doppio di lui come il Partito democratico?
Insomma, a che serve Giuseppe Conte ridotto a capo di un partito-satellite, un cespuglio verdastro che galleggi in uno stagno di eventuale sottopotere, passando la borraccia come un gregario qualunque, solo un po’ più noto degli altri? Perché gira e rigira è questo che gli sta offrendo Enrico Letta, forse malgré soi, ma è così.
La prospettiva più realistica per il Movimento contiano, ridotto a una cifra, è dunque quello di una condizione di subalternità dettata dai numeri ma soprattutto dalla politica: se Conte apparirà come la copia di Letta in tono minore, allora meglio il vero Letta. Certo, un pizzico di caratterizzazione ci sarà, una volta sulla filosofia assistenzialistica (che però impatta negativamente su quella opposta di Mario Draghi), un’altra sul giustizialismo che residua dalle dottrine travagliesche: ma è poca roba.
Mettendosi sotto l’albero del Pd Conte compie una scelta disperata, anche se in un certo senso obbligata dalla sua mancanza d’inventiva politica, perché toglie senso alla natura del suo partito e al massimo potrà portare un po’ d’acqua alla coalizione del Nuovo Ulivo o come la si voglia chiamare, cioè al Pd più vedremo chi.
Scampato alla tragedia gialloverde e non in grado di reggere la sfida della pandemia, Conte sta tentando una terza reincarnazione, peggio del Vautrin di Balzac, all’ombra del Nazareno ma senza averne il pedigree storico-culturale alle spalle né tantomeno l’insediamento nel Paese (non è più possibile, dopo 10 anni di vita, giustificare i disastri elettorali alle amministrative con la mancanza di gente sul territorio: ma che partito è?), e inevitabilmente schiacciato dal professionismo politico che ancora alloggia, per derivazione comunista e/o democristiana, nelle stanze del Pd.
Quello che lui chiama «nuovo corso» non è dunque che la disperata ricerca di un salvagente mentre l’acqua sale di ora in ora, ma non può trattarsi di una cosa seria se si evita di guardare in faccia il Dio che è fallito, come fecero gli eretici del comunismo (ben altra levatura, da Ignazio Silone a Arthur Koestler a André Gide), cioè senza minimamente porsi la questione di cosa sia stata e perché sia crollata in breve tempo quella forma particolare di populismo a-democratico che chiamiamo grillismo: è una rimozione che ingarbuglia ogni discorso futuro, che paralizza le gambe di ogni disegno per il domani.
E infatti il M5s dell’avvocato non è né carne né pesce, né un soggetto riformista né una talpa anti-istituzionale, né rinnovatore né conservatore, né di destra né di sinistra – ma nel non nel senso, peraltro velleitario, del superamento delle due categorie tradizionali ma in quello del nulla cosmico.
Non potrà durare a lungo: le scorciatoie sono brevi per definizione. Già si odono rumori di spade da sguainare dalle parti di Virginia Raggi, l’ex sindaca finita quarta che ha abbandonato la scena romana minacciosa e rancorosa come una cattiva dei film di Hollywood ma non essendo Bette Davis ha rivelato solo una caduta di stile, e ora schiuma rabbia contro l’avvocato che in effetti l’ha mollata nel momento della disgrazia ed è scappato come l’amante scoperto dal marito cornuto: e dunque aspettiamocela, Virginia, magari a braccetto con Alessandro Di Battista, l’amico di sempre, e vari personaggi in cerca di un nuovo autore e di un nuovo seggio (difficile eh) mettersi di traverso e, chissà, inventarsi una pantomima del vecchio M5s, un nuovo gruppo a caccia di un seggio in un Parlamento da loro stessi ghigliottinato.
Beppe Grillo forse non aspetta altro per benedire scismi, lui l’aveva detto che Conte era un’incapace. E oggi i fatti sembrano dargli ragione, mentre l’incapace, insieme ai ministeriali Luigi Di Maio, Stefano Patuanelli, Federico D’Incà, prova a salire sull’autobus con destinazione Pd, quella che il coraggioso Di Maio, già Grande Inquisitore del partito di Bibbiano, oggi evoca come «la casa comune»: già, meglio fare i camerieri al Nazareno che niente.