Nel nord dell’Etiopia – per la precisione nella regione del Benishangul-Gumuz – è arrivata alla fase finale della sua costruzione una delle dighe più grandi al mondo: la Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd) o, come è stata soprannominata per la sua importanza, “diga del millennio”.
Il nome altisonante è giustificato: da quando l’idea è stata presentata per la prima volta nel 2011, dal governo di Meles Zenawi, le reazioni sono state così forti che si è parlato più volte di una possibile guerra tra gli stati della regione cioè l’Egitto, il Sudan e, per l’appunto, l’Etiopia. La “guerra dell’acqua”, come l’avevano battezzata alcuni giornali e osservatori, però non c’è stata.
Una volta a pieno regime Gerd sarà la più grande centrale idroelettrica del continente africano, con 145 metri di altezza e 74 miliardi di metri cubi d’acqua potrà produrre un massimo di 16.153 GWh annui. Un quantitativo di energia enorme per l’Etiopia, che al momento ha 65 milioni su 110 milioni di abitanti che non hanno nessun accesso alla corrente elettrica e i restanti 45 milioni che sono costretti a subire interruzioni della fornitura molto frequenti. L’idea etiope non è solo quella di fornire energia ai propri cittadini, ma di poterla vendere agli stati vicini.
Sulla carta l’operazione è molto ambiziosa, ma segue una logica evidente: l’Etiopia al momento è uno stato ancora poverissimo ma ha un’economia tra le più dinamiche di tutto il continente visto che cresce di oltre il 6% all’anno e, nel periodo precedente alla pandemia, cresceva addirittura del 10%. Lo stesso fa la popolazione, che conta 115 milioni di persone e cresce del 2,5% all’anno. Senza contare che l’età media nel paese è bassissima, solo 19,5 anni. Grazie a questi fattori così promettenti lo stato punta a fare un salto molto ambizioso e diventare, da nazione in via di sviluppo, una middle income country cioè uno stato mediamente sviluppato. Per questo una grande diga come Gerd è così importante: per garantire al paese l’energia che serve a questa rapida crescita.
La diga è sul Nilo azzurro – uno dei tanti fiumi che attraversano l’altopiano etiopico – che nasce dal lago Tana a 1788 metri sul livello del mare. Il Nilo azzurro è il fiume che, in Sudan, si unisce al Nilo giallo formando il Nilo, cioè uno dei due fiumi più lunghi del mondo. Per avere un’idea delle dimensioni della diga e del suo impatto, bisogna innanzitutto dare uno sguardo ai costi. Le ultime stime parlano di un totale di 4,1 miliardi di euro, cioè circa il 5% del Pil etiope. Come se l’Italia investisse in una sola grande opera più di 81,5 miliardi. Ma le spese potrebbero addirittura essere più alte.
Per ottenere i finanziamenti necessari l’Etiopia ha fatto sforzi considerevoli, anche perché l’obiettivo di Addis Abeba è stato quello di non far dipendere la costruzione da nessun finanziamento estero in modo da evitare che stati contrari alla costruzione della diga, come l’Egitto, potessero influenzare il progetto facendo pressioni sui finanziatori. Così l’Etiopia ha finanziato Gerd raccogliendo donazioni da privati, emettendo dei titoli di stato e invitando tutti i suoi cittadini, soprattutto quelli all’estero, a comprarli. I finanziamenti sono arrivati anche da tassazioni straordinarie: tutti i lavoratori statali etiopi, per esempio, hanno dovuto versare una mensilità all’anno in favore dell’opera.
Secondo le credenze degli amhara, cioè i popoli che abitano l’altopiano, il Nilo azzurro è un fiume sacro, ma allo stesso tempo dannato perché fa in modo che l’acqua scivoli verso il Sudan e l’Egitto senza fecondare le terre da cui sgorga. Eppure, il Nilo azzurro contribuisce per più dell’80% dell’acqua del Nilo, percentuale che può salire fino al 95% nella stagione delle piogge. L’Etiopia punta molte delle sue energie su Gerd proprio per mettere fine a questa che ritiene un’ingiustizia: dare acqua agli altri e non averne per sé, subendo siccità tra le peggiori mai registrate in Africa. Da qui l’idea di “trattenere” una piccola porzione del fiume a pochi chilometri dal Sudan in modo da sfruttarne il potenziale sia per la produzione di energia che per l’agricoltura.
Oltre alla produzione di energia elettrica la diga del millennio servirà anche per irrigare grandi appezzamenti di terre coltivate. Gerd infatti non è un progetto isolato, ma è parte di una serie di dighe in territorio etiope che comprendono anche quattro centrali idroelettriche lungo il fiume Gibe, nel sud del paese. Una di queste grandi dighe, la Gilgel Gibe III, è dedicata a un enorme progetto di irrigazione per la produzione di canna da zucchero: il cosiddetto Kuraz Sugar Development Project. La diga permetterà di irrigare oltre 100mila ettari di coltivazioni e far funzionare ben tre fabbriche per la raffinazione.
Modificare, anche di poco, il corso di un fiume lungo oltre 6mila chilometri e capace di una portata massima di quasi 8mila metri cubi al secondo non è un affare da poco. All’inizio dell’estate del 2020 la diga ha cominciato a riempirsi e subito gli stati più a valle hanno temuto di vedere la loro principale risorsa d’acqua, il Nilo, prosciugarsi. Queste paure vengono soprattutto dall’Egitto, il paese più grande della regione e la cui società dipende da millenni dalle sue acque, anche perché è il più a valle di tutti gli undici paesi attraversati dal grande fiume e le sue risorse idriche dipendono per oltre il 90% proprio dal Nilo.
Non è facile stimare quante persone dipendono direttamente dalle acque del Nilo, ma se consideriamo l’agricoltura, le industrie e gli allevamenti oltre alle risorse idriche utili alle città, siamo nell’ordine delle decine di milioni. Cittadini appartenenti a diverse etnie e diverse classi sociali, che parlano diverse lingue e praticano diverse religioni, ma tutti che dipendono da uno stesso fiume.
Nella nascita e nella costruzione di Gerd un ruolo importante lo ha avuto anche il cambiamento climatico. Per capire perché bisogna fare un salto indietro al 1959, quando Egitto, Sudan e Regno Unito siglarono un nuovo accordo per la spartizione delle acque del Nilo. L’accordo prevedeva che 55,5 miliardi di metri cubi all’anno spettassero all’Egitto e 18,5 al Sudan, mentre tutti gli stati attraversati dal fiume prima che arrivi in terra sudanese erano stati esclusi dai negoziati. Il motivo dell’esclusione è storico: si era sempre ritenuto che i paesi prima del Sudan, come Kenya, Tanzania e la stessa Etiopia, godessero di precipitazioni abbondanti e regolari e quindi non avessero bisogno di attingere direttamente dal corso del fiume.
Arrivati ai giorni nostri però l’Egitto continua a ritenere valido l’accordo del 1959, ma molti altri paesi no, perché per via del riscaldamento globale quelle piogge un tempo abbondanti oggi non sono più né abbondanti né regolari. Anche da qui nasce l’idea della serie di dighe, e di costruire Gerd, che per anni, quando era un progetto segreto, veniva chiamata Project X.
Nonostante la diga sia sostanzialmente ultimata, le preoccupazioni non sono del tutto cessate. E questo nonostante sempre più esperti sostengano che tutto sommato la Gerd conviene a tutti i paesi della regione. Come scrive Ashok Swain su The Conversation: «In generale, la diga conferisce enormi benefici all’Egitto e al Sudan, come la garanzia di un flusso regolare di acqua, la prevenzione della sedimentazione, la riduzione dell’evaporazione e la fornitura di elettricità più economica». Sembra quasi che nei dieci anni che sono trascorsi dall’inizio dei lavori si sia passati dal timore di una guerra per l’acqua in una delle regioni più povere al mondo, a un esempio virtuoso di cooperazione per l’acqua, magari da replicare altrove.
Gerd può essere il vanto etiope non solo per le dimensioni dell’opera, per la quantità di energia prodotta e la capacità di irrigare grandi spazi coltivati, ma anche perché l’idroelettrico è una fonte di energia che inquina molto meno di altre. Meno del carbone e meno del petrolio, per esempio, soprattutto dal punto di vista delle emissioni di Co2 e di gas serra, cioè i principali responsabili del riscaldamento globale.
Allo stesso tempo però, l’energia idroelettrica può comunque avere dei costi ambientali, ecologici e sociali importanti. Un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences mette in luce come, a seconda del contesto, le grandi dighe possano modificare interi ecosistemi. Ma anche costringere milioni di persone a migrare, soprattutto se non indennizzate a sufficienza per gli espropri. I rischi per l’ambiente riguardano soprattutto la possibilità che, modificando l’andamento alluvionale del Nilo azzurro, la diga abbia un impatto eccessivo sulle specie animali e vegetali che abitano la grande area al confine tra Etiopia e Sudan.
Infine ci sarà da gestire i rischi sociali: secondo uno studio pubblicato sulla rivista Nature la diga «darà benefici agli etiopi come ai sudanesi senza eccessive conseguenze su l’approvvigionamento d’acqua in Egitto» ma servirà «un attento coordinamento se si vogliono minimizzare i rischi e i possibili impatti dannosi». Un ruolo di controllo e mediazione ce l’hanno sia le entità super partes come Onu e Unione Africana – che peraltro ha sede proprio nella capitale etiope – che la società che ha costruito Gerd: la Webuild, ex Salini Impregilo. L’azienda italiana, infatti, oltre che la Diga del millennio ha lavorato a molte delle nuove opere e infrastrutture in Etiopia.