Se in molte parti dell’Africa gli anni Sessanta e Settanta erano stati un periodo di speranza e, in una certa misura, di benessere, gli anni Ottanta e Novanta furono una doccia fredda. Leader autoritari, che al principio sembravano avere a cuore il bene dei rispettivi Paesi, si trasformarono in dittatori spietati dediti soltanto agli interessi del loro clan o della loro etnia d’appartenenza. Intere regioni furono martoriate da guerre civili interminabili, carestie e stermini di massa. Il resto del mondo associava l’Africa a schiere di rifugiati, pance gonfie, soldati bambino, epidemie e colpi di Stato.
Anche Heineken cominciò a nutrire grossi dubbi. Fino al 1985 i partner africani vendevano più birra delle filiali di Nord e Sud America messe insieme, ma l’azienda constatò che in Africa era sempre più difficile «guadagnare “legalmente”».
I dividendi e le royalties venivano versati di rado, e anche i compensi per l’assistenza tecnica non rappresentavano una garanzia. Heineken dovette concentrarsi su fonti di entrata alternative. Le commissioni sulla fornitura delle materie prime e dei ricambi erano redditizie, anche perché gli sconti considerevoli che l’azienda poteva negoziare come grossista non erano messi in conto alle filiali. Operazione che prese il nome di «veto». Per l’impresa era scontato che il «massaggio delle autorità» – probabilmente un eufemismo per indicare le tangenti – fosse in certi casi necessario al fine di ottenere una moneta forte per i pagamenti.
Le somme così ottenute erano «molto sostanziose» e avevano «il potenziale per crescere significativamente […] negli anni a venire».
Tuttavia cresceva anche l’inquietudine: sia dentro sia fuori Heineken, sempre più persone erano coinvolte in pratiche controverse, e bisognava che il consiglio d’amministrazione rimanesse estraneo a ogni eventuale scandalo. Fu qui che entrò in scena Ibecor, successore di Interbra. Nel 1982 il partner belga si era tirato indietro e l’azienda – guidata ancora da Bodart, suocero di Van Boxmeer – diventò a pieno titolo una filiale di Heineken. Ibecor fu «uno strumento utile a stringere le maglie del circuito del veto» e un «mezzo per tenere separato il consiglio di amministrazione dalle attività di gestione dell’Africa».
In buona parte fu grazie a Ibecor che Heineken continuò a guadagnare nel continente africano anche durante i difficili anni Ottanta e Novanta, quando i partner e i concorrenti gettavano la spugna uno dopo l’altro.
Un caso esemplare è quello dell’Angola, il cui governo varò nel 1985 una legge che rimetteva l’acquisto delle materie alle autorità. Per Heineken venne così a mancare una fonte di entrate che valeva circa mezzo milione di fiorini (quattrocentomila euro) su base annua. Per l’epoca si trattava di una somma importante, tale da rendere il mercato angolano deficitario.
Sul finire degli anni Ottanta, anche grazie a Ibecor, l’Africa in rovina continuava a fruttare dai trenta ai trentacinque milioni di fiorini l’anno (dai ventiquattro ai ventotto milioni di euro).
«Negli anni Ottanta e Novanta anche i sussidi europei all’agricoltura rappresentavano un’integrazione alle nostre entrate africane», spiega Van Boxmeer nel corso di un colloquio presso la sede centrale di Heineken. «Esportavamo malto europeo in Africa e una parte dei sussidi andava a noi in quanto acquirenti».
Fu così che Heineken riuscì a far quadrare i conti e continuò a vedere promesse in un continente sul cui futuro si accumulavano previsioni tetre. Il gruppo tenne gli occhi aperti in cerca di nuove opportunità e nel 1984, dopo vari tentativi falliti, acquisì una quota di un birrificio in Camerun, una delle grandi «nazioni della birra» africane.
In quel periodo l’ottimismo aveva spesso vita breve. Alla fine degli anni Ottanta nemmeno i dirigenti di Heineken, in genere entusiasti, sapevano più a che santo votarsi. «Le prospettive per l’Africa sono deprimenti: limitazioni sul trasporto delle materie prime, svalutazione delle monete, potere d’acquisto in discesa e hIV».
L’Africa emergente
E in effetti ci fu motivo di deprimersi. La Nigeria subì due colpi di Stato militari e la Sierra Leone, il Burundi e il Congo-Brazzaville furono teatro di lunghe e cruente guerre civili. In Zaire, nel 1997, Mobutu venne finalmente deposto da Laurent-Désiré Kabila. Seguì una guerra che ancora oggi continua a covare sotto la cenere. E in Ruanda il conflitto fra hutu e tutsi degenerò in un genocidio nel quale Heineken ebbe una parte importante.
Nemmeno questa catastrofe dissuase gli olandesi. «La situazione in Ruanda non ci porterà a ritirarci dal continente africano», disse il manager Karel Vuursteen. «Non possiamo chiudere un birrificio e abbandonare un Paese come se niente fosse. Abbiamo investito troppo», gli fece eco Jean Louis Homé, ex direttore della regione Africa. «Non guardiamo solo all’aspetto finanziario. Per sua cultura, Heineken non si arrende facilmente. Non è un’azienda che vuole fare affari mordi e fuggi. Abbiamo una strategia a lungo termine e quindi un impegno a lungo termine con i dipendenti. È la nostra forza, e la gente in Africa lo sa».
Un commerciante devoto al proprio lavoro, nella migliore tradizione olandese: è così che Heineken ama presentarsi.
Alla fine il cielo sopra questa parte di mondo piano piano si schiarì e molti osservatori riconobbero nell’Africa il continente degli affari del futuro. Heineken smise di vedere l’Africa come «i bassifondi del nostro business» (Van Boxmeer) e cominciò a prenderla sul serio. «Per noi la svolta arrivò nel 1999», spiega un ex dirigente. «Negli anni Ottanta e Novanta l’Africa era un’area in cui non c’era bisogno di seguire le regole troppo alla lettera. Si poteva fare tutto “all’africana”. Ma da quel momento per noi non è più stata una regione svantaggiata. Abbiamo adottato un approccio professionale, con birrifici moderni ed efficienti. L’Africa contava».
Homé ricorda l’ambizioso programma sviluppato da Heineken per cambiare la mentalità e lo stile manageriale in Africa. «Convocammo ad Amsterdam settecentocinquanta manager africani, cui facemmo seguire corsi intensivi. Volevamo liberarci dell’approccio postcoloniale, che era ancora in piedi in vaste zone del continente, non solo da noi. [I manager locali] dovevano assumersi responsabilità in prima persona e contribuire alla definizione della strategia».
Eppure in Africa continuarono a esserci alti e bassi e i rischi e gli investimenti furono contenuti a un livello minimo. Nel 2004 Heineken vendette le sue quote dei birrifici in Ciad e in Angola e si ritirò in larga parte dallo storico bastione del Ghana. «A volte ci domandavamo perché ci dessimo tanta pena», dice una fonte. «I tassi d’interesse erano elevati e il denaro fruttava più in banca che dagli investimenti in Africa».
Nel 2005, con la nomina di Van Boxmeer a presidente del consiglio d’amministrazione, il gruppo si trovò a essere guidato da un patito d’Africa che restituì importanza strategica al continente attraverso una serie di acquisizioni ed espansioni. Heineken si stabilì per la prima volta in Algeria, Tunisia, Etiopia e Costa d’Avorio e investì decine di milioni in nuovi birrifici: tra gli altri, a Lubumbashi (Congo), Sedibeng (Sudafrica), Addis Abeba (Etiopia), Abidjan (Costa d’Avorio) e Maputo (Mozambico). Oggi si guarda a ulteriori possibilità di crescita anche nell’Africa occidentale francofona.
In Africa, per oltre un secolo, Heineken ha dato prova di un’impressionante determinazione e perseveranza, anche nei momenti più difficili, e spesso ne è stata riccamente ricompensata. Al tempo stesso le pratiche controverse e fraudolente hanno avuto un ruolo significativo nella sua strategia di sopravvivenza.
È difficile, se non impossibile, determinare quanto questi fattori siano stati decisivi affinché l’azienda potesse rimanere attiva e trarre profitti dal continente, e se abbiano fatto la differenza rispetto ai concorrenti che invece hanno sgombrato il campo. A tal fine occorrerebbe uno studio storico più approfondito. Ma non c’è dubbio che sia il passato sia il presente sarebbero stati molto diversi senza i «milioni neri» che Heineken – per usare le sue stesse parole – ha «estratto» dall’Africa.
da “Heineken in Africa. La miniera d’oro di una multinazionale europea”, di Olivier van Beemen, Add editore, 2021, pagine 331, euro 16