Lo scorso 22 settembre è uscito “Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo)”, di Nicolò Porcelluzzi e Matteo De Giuli, edito da Nero Editions, proseguimento ideale dell’omonima newsletter quindicinale Medusa che parla di crisi climatica e Antropocene, l’impronta indelebile dell’essere umano sulla Terra. Nell’intervista di Arianna Preite su The Submarine i due autori restituiscono la complessità del problema a partire da una citazione di Naomi Klein riportata nel libro: «Superare la crisi ambientale significherà intraprendere un cambiamento profondo che porti a sradicare tante idee idolatrate dalla cultura occidentale non più sostenibili».
A cominciare dal diverso peso sulla bilancia ambientale tra i paesi più ricchi e quelli più sfruttati. Nonostante questo aspetto fatichi spesso a emergere all’interno di molte narrazioni sul problema ambientale, disuguaglianze socio-economiche e crisi climatica camminano a braccetto. La fine del mondo per come lo conosciamo non sarà omogenea ma discreta e localizzata, distribuita sul pianeta in modo diseguale e subdolo.
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A proposito di sguardi non convenzionali, questa settimana il New York Times ha ospitato le riflessioni di David Keith, professore di fisica applicata e di politiche pubbliche ad Harvard e co-conduttore del podcast “Energy vs Climate”. Secondo Keith, anche se si azzerassero le emissioni entro il 2050 e, di conseguenza, le temperature medie smettessero di aumentare, il processo di raffreddamento richiederebbe migliaia di anni per essere completato poiché i gas serra si dissipano lentamente nell’atmosfera. Di conseguenza, anche se il caldo smettesse di peggiorare, il livello del mare continuerebbe a salire per secoli per gli effetti a lungo termine del riscaldamento globale provocando catastrofi ambientali peggiori di quelle che già oggi vediamo.
Secondo Keith, per abbassare nell’immediato le temperature di picco si dovrebbe ricorrere alla geoingegneria diffondendo in atmosfera grandi quantità di anidride solforosa. Keith calcola che due milioni di tonnellate sarebbero sufficienti a far diminuire di un grado le temperature per un paio di anni. I budget per la ricerca sono minuscoli, sostiene Keith, perché la geoingegneria ha avversari influenti. La più forte opposizione deriva dal timore che la tecnologia venga sfruttata dai potenti per mantenere lo status quo.
Per capire quanto lo spazio si riveli un buon punto di osservazione del climate change, meritano una lettura anche i risultati di una ricerca del New Jersey Institute of Technology pubblicati sul Daily Mail su due decenni di osservazione di un fenomeno chiamato Earthshine, la luce riflessa dalla Terra sulla superficie della luna. Gli studi hanno evidenziato che il nostro pianeta riflette circa mezzo watt in meno per metro quadrato rispetto a vent’anni fa: un ulteriore indicatore preoccupante della salute del pianeta dal momento che la luce non riflessa nello spazio resta intrappolata in atmosfera e contribuisce al rialzo delle temperature.
Quando si parla di emergenza climatica spesso ci si interroga su cosa può fare il singolo per migliorare la situazione globale. Segnaliamo due possibili approcci che cercano di ridurre la complessità del tema a partire da azioni banali: Hannah Twiggs si è chiesta quali sono gli alimenti più buttati nelle nostre cucine – per la cronaca: patate, carote, mele e cipolle – e sull’Independent li ha trasformati in quattro ricette antispreco. L’altro racconto riguarda gli allevamenti intensivi, spesso nel mirino degli ambientalisti per il loro impatto sull’ambiente: è noto che il letame prodotto dal bestiame, se mescolato con l’urina, rilasci un composto azotato in grado di produrre ingenti quantità di gas serra e danneggiare gli habitat naturali. Considerando che ci sono 1,4 miliardi di mucche sulla Terra, ha avuto una discreta eco la notizia che in Germania una mandria di bovini è stata addestrata con successo a fare la pipì in un sorta di bagno per mucche. Ne abbiamo parlato anche noi.
Chiudiamo con due notizie iperlocal (vedi alle voci disponibilità delle risorse e tutela della biodiversità): il docufilm “Donne di terra” della regista di Elisa Flaminia Inno, presentato lunedì 4 ottobre al festival CinemaAmbiente di Torino, ritratto di cinque donne accomunate dalla scelta di puntare al biologico e all’autoproduzione e la caccia di Andrea Strafile all’alga rossa, la cui presenza sul litorale tra Catania e Acireale un tempo era molto comune. Come ha raccontato su Vice pare che U Mauru, come si chiama quest’alga in dialetto siciliano, sia ormai introvabile e la ragione sia, neanche a dirlo, l’inquinamento.