C’è una vecchia striscia di quel genio di Charles Schulz nella quale Charlie Brown aspetta che cada una altissima palla da baseball e dice a sé stesso: «Se la prendo sarò un eroe, se non la prendo sarò un verme». Ora – termini a parte – Roberto Gualtieri si trova un po’ nelle stesse condizioni, se diventa sindaco di Roma il ko alla destra avrà il suo sigillo, se perde sporcherà la vittoria nazionale del Partito democratico.
L’ex ministro dell’Economia parte tre punti dietro Enrico Michetti, ma non è questo il problema. Pur contro un avversario sgangherato come il predicatore radiofonico, Gualtieri non ha ancora la vittoria in tasca, anche se sulla carta è il favorito: Michetti ha abbastanza fatto il pieno, mentre l’esponente democratico dovrebbe ricevere la maggior parte dei molti voti di Carlo Calenda e qualcuno anche di Virginia Raggi. Tuttavia molto dipenderà da chi deciderà di recarsi alle urne al ballottaggio, tra gli astenuti al primo turno,
Ora, la dinamica della vicenda romana pone questioni di rilevanza nazionale, quasi fosse un laboratorio valido per l’avvenire della politica italiana.
Primo. La destra ha la possibilità di recuperare? Attenzione a darla per morta, e a Roma poi, megalopoli offuscata dal pessimo umore dei suoi cittadini, soprattutto di quelli – la maggioranza – che hanno preferito non andare a votare, avendo tutt’altri pensieri per la testa e sicura di una cosa: che i politici non cambieranno la loro vita. In questo lago di malessere esistenziale, di abissale sfiducia, di pessimismo cosmico, la destra può ancora pescare voti. Specie la destra di opposizione, sottilmente anti-sistema, semplificatrice e demagogica come Fratelli d’Italia.
Certo, lui, Michetti, non è capace di niente, ma c’è da attendersi una Giorgia Meloni scatenata nei quartieri, nei mercati, nelle sterminate periferie, una Meloni che deve difendere l’onore di una destra – adoperiamo il suo linguaggio – che già si vedeva con l’Italia in mano e scopre che in mano ha ben poco e dunque deve riprendersi la Capitale, e ornare la sua persona del crisma già berlusconiano della rimonta impossibile («Avete capito bene: aboliremo l’Ici», 2006, perse ma di pochissimo).
Giorgia riuscirà a dare sangue sufficiente per rianimare l’opacissimo Michetti? Se la risposta delle urne sarà negativa, i lividi segneranno a lungo la leader di Fratelli d’Italia. I suoi romani potrebbero essere i suoi carnefici politici.
Secondo. Roberto Gualtieri farà un’operazione politica e non politicista. Questo lo sappiamo e lo scriviamo qui. Che vuol dire politica e non politicista? Politicismo sarebbe concordare con Calenda e magari Raggi le contropartite di potere in cambio dei loro voti. Fare politica significa fare una proposta molto forte sui contenuti – dove non guasterebbe un po’ più di chiarezza sui rifiuti – e soprattutto sulla squadra di governo.
Dovrebbe dire basta con le giunte costruite con il manuale Cencelli delle correnti del Partito democratico: Gualtieri – è la sua intenzione – presenterà una compagine indiscutibile per competenza, onestà e professionalità. Non i portaborse dei capicorrente ma persone di qualità: può essere la chiave vincente, quel salto di qualità da capopartito a leader di una metropoli.
Terzo. Su questo terreno può esserci l’intesa con Carlo Calenda, il cui risultato è stato ottimo. Quest’ultimo è nelle condizioni di aiutare il candidato del Partito democratico non solo con un suo endorsement personale che sicuramente ci sarà ma soprattutto assecondando e pungolando il profilo riformista della giunta Gualtieri.
Calenda gli metta a disposizione quella sorta di enciclopedia programmatica che ha costruito con una passione infinita in un anno di lavoro, gli indichi personalità da coinvolgere, lo aiuti a trovare soluzioni serie ai problemi. I due facciano squadra non solo contro la destra ma per un progetto nuovo. Senza contropartite, senza accordi sottobanco.
Quarto. Questo è il ruolo non solo di Calenda a Roma ma di tutta l’area esterna ma alleabile con il Partito democratico, un Partito democratico che con Letta ha lanciato ieri la sfida nazionale a una destra «battibile».
Roma dunque può essere un laboratorio per sperimentare una alleanza di tipo nuovo tra un Partito democratico liberato da vecchie incrostazioni ideologiche e di potere e un’area riformista come propellente di un’alleanza competitiva.
È una doppia sfida, per Letta e per i riformisti. Sapendo, il Pd, che accanto a sé non hanno più l’alleato strategico, il Movimento 5 stelle, un partito che probabilmente ormai è nazionalmente a una cifra.
Giuseppe Conte (che dopo aver scaricato un po’ vigliaccamente una Raggi distrutta appoggerà Gualtieri) non è più un punto di riferimento fortissimo, tutt’al più il suo Movimento sarà una specie di corrente esterna del Partito democratico, un partito dei contadini come quello che decenni fa in Polonia era alleato del Partito comunista prima che questo finisse male.
Com’è finita Virginia Raggi a Roma.