Sui giornali di ieri si potevano leggere, più o meno nelle stesse pagine, due notizie relativamente scontate: da un lato l’incontro tra Enrico Letta e Giuseppe Conte, per rinsaldare la fraterna alleanza tra Partito democratico e Movimento 5 stelle, all’indomani delle amministrative e in vista dell’elezione del presidente della Repubblica; dall’altro la partenza della nuova tournée di Alessandro Di Battista, con Siena come tappa di lancio. Scenario ideale, obiettivamente, che all’ex grillino offre, con la crisi del Monte dei Paschi, la perfetta rappresentazione di tutto quello che ha sempre combattuto: le banche e i banchieri, a cominciare ovviamente da Mario Draghi; e la sinistra, a cominciare ovviamente dal Pd.
La compresenza dei due resoconti, però, rendeva tanto più evidente l’assenza di una terza notizia. Una notizia che a dire il vero avremmo dovuto leggere già un sacco di tempo fa. Almeno a voler prendere per buona la tesi, assai diffusa, dell’evoluzione democratica e progressista dei cinquestelle. Non dico la notizia di uno scontro furibondo, ma almeno una polemica, una dichiarazione, una parola che non sia di elogio, da parte del leader che avrebbe guidato la suddetta svolta, nei confronti di chi continua a sostenere l’esatto contrario. O meglio, e per essere più onesti, tra chi come Di Battista continua a sostenere quello che i cinquestelle hanno sempre sostenuto (sul governo Draghi, sul Pd, sulla politica in generale) e il Movimento guidato – si fa per dire – da Conte. Che invece, ogni volta in cui qualcuno dei suoi assidui intervistatori gli ha domandato di Di Battista, ha avuto per lui solo parole di apprezzamento, augurandosi di poterlo presto riaccogliere nel partito.
Dunque, per capire la reale consistenza della presunta svolta – crescita, maturazione, evoluzione: quale che sia la ridicola espressione con cui vogliate definirla – non c’è che da ascoltare Dibba, non c’è che da leggere il Fatto quotidiano, non c’è che da seguire quanto, senza nessun infingimento, continuano a sostenere tutte le voci più ascoltate di quel mondo, senza che nessuno, e tantomeno Conte, si sogni mai di contraddirli nemmeno per scherzo.
Non esiste nella storia dei partiti politici italiani una svolta più radicale e improvvisa di quella compiuta, sulla carta, dal Movimento 5 stelle, prima con il passaggio dal primo al secondo governo Conte e poi con il sostegno al governo Draghi. Al tempo stesso, mai nella storia si è vista una svolta meno discussa e combattuta. E più dissimulata.
Forse, l’acuta consapevolezza di quale sia la reale stoffa del «punto di riferimento fortissimo», come lo definì Nicola Zingaretti, ha finito per oscurare, agli occhi dei dirigenti del Pd, un dato di fatto piuttosto significativo. E cioè che Giuseppe Conte non solo non ha mai fatto la benché minima autocritica, nemmeno sui provvedimenti più estremi presi al governo con Matteo Salvini, ma li ha sempre rivendicati. Appena un mese fa, persino a proposito dei decreti sicurezza e della chiusura dei porti ai naufraghi, dinanzi a un costernato Corrado Formigli, ha scandito: «Guardi, se lei legge i discorsi che ho fatto nel Conte uno e quelli del Conte due sono in assoluta continuità; predicavo un nuovo umanesimo nel Conte uno e l’ho predicato anche nel Conte due, e continuerò a predicarlo».
Capisco che l’idea di un Conte che predica l’umanesimo mentre firma i decreti sicurezza possa suscitare ilarità, ma giudicare tutto questo come simpatica cialtronaggine sarebbe un errore, perché farebbe perdere di vista il punto decisivo: che né Conte né alcun esponente del Movimento 5 stelle si è chiuso alcuna porta alle spalle.
È questa la fondamentale differenza con qualunque altra svolta mai compiuta da un partito nella politica italiana. Che si trattasse di un processo lungo e drammatico come fu quello avviato alla Bolognina per il Partito comunista italiano o di un passaggio praticamente indolore come il congresso di Fiuggi per il Movimento sociale, non si è mai visto che dal giorno dopo favorevoli e contrari, tra i dirigenti come tra i giornalisti e gli intellettuali di riferimento, continuassero ad andare più d’accordo di prima. Ma soprattutto non si è mai visto che un partito decidesse un simile cambio di rotta senza una discussione. Non dico in un congresso – figuriamoci – ma nemmeno sui giornali.
Discussione che non c’è mai stata, attenzione, non solo perché nel Movimento 5 stelle non si è mai discusso di niente – semmai si allestivano all’improvviso grottesche votazioni su Rousseau, quando e come decidevano i soliti due o tre – ma perché la verità è che non c’è stata nessuna svolta, nessuna evoluzione, nient’altro che non sia una semplice successione di aggiustamenti tattici, nascosti dietro una spessa coltre di fregnacce, come quelle sulla predicazione umanista di Conte, che dovrebbe certificare la perfetta coerenza tra un governo con i leghisti, al tempo in cui si dichiarava populista e sovranista, e uno con il Pd, al tempo in cui si riscopriva cattolico-democratico e di sinistra.
Il problema, però, non è la coerenza, ma la reversibilità delle scelte e delle posizioni politiche. Un aspetto che il Partito democratico farà bene a considerare con attenzione, prima di affidarsi al fraterno alleato per le future strategie, se vorrà evitare brutte sorprese.