Hanno fatto meno rumore di quanto si sarebbero meritate le parole del neo Premio Nobel per la Fisica, Giorgio Parisi, che, intervenendo a Montecitorio al Pre-COP26 Parliamentary Meeting, in vista della Conferenza Onu sul cambiamento climatico, ha dato voce a un’opinione molto diffusa sulla impossibilità di frenare il riscaldamento globale senza frenare, contestualmente, anche la crescita economica. Poi ha aggiunto di non considerare il Pil una misura adeguata del benessere e di ritenere la sua centralità nelle scelte di governo una condanna a un «futuro triste».
Il rumore, nel senso di una maggiore attenzione mediatica, sarebbe stato opportuno visto che in quelle parole è racchiusa non un’ipotesi giusta o sbagliata, ma il senso di un equivoco sui rapporti tra scienza e politica, che le emergenze recenti hanno ulteriormente aggravato.
Di quest’equivoco occorrerebbe parlare, più che delle posizioni del professore Parisi, che sono tutt’altro che nuove e che hanno largo seguito in ambito accademico e scientifico, con ricadute politiche in genere espresse in termini assai più approssimativi e folcloristici.
Peraltro, si tratta di posizioni fortemente contestate anche in sede scientifica, sulla base dell’esperienza concreta degli ultimi decenni, che ha visto disaccoppiare con successo in moltissimi paesi avanzati la crescita del Pil e quella delle emissioni di CO2, e dello scetticismo per una logica deterministica, che esclude innovazioni tecnologiche e azioni politico-sociali in grado di modificare le variabili determinanti dei processi produttivi e ambientali.
Senza pretendere di riassumere i termini molto complessi di questa disputa, e per tornare all’equivoco pericoloso a cui si accennava, si può dire che la posizione “decrescista”, oltre che su modelli predittivi complessi, si fonda in primo luogo su un’idea semplificata dei processi politici, cioè sulla riduzione delle alternative di governo di un fenomeno – di qualunque fenomeno – ai termini della sua rappresentazione secondo i principi di una specifica disciplina scientifica. Questo processo di immediata politicizzazione, cioè, in genere, di traduzione di un sapere in norme imperative di divieto e di comando, è tanto più naturale e rischioso quanto più la società si confronta con emergenze drammatiche, a cui chiede alla scienza una immediata soluzione.
È stato il caso del Covid, in cui dagli infettivologi si sono pretese indicazioni certe rispetto a scelte di politica pubblica – ad esempio, sui trasporti o l’organizzazione sanitaria e scolastica – sulle quali non avevano nessun titolo e neppure alcuna competenza, sulla base del fatto che il loro sapere era quello più prossimo al virus mortale.
Accade anche nel caso del riscaldamento climatico, dove si ritiene altrettanto ingenuamente che i fisici, per il fatto di essere specialisti della materia e, più ancora, depositari di una scienza esatta, in cui la verità non lascia spazio all’opinione, possano dire qualcosa di risolutivo su come governare i sistemi sociali e produttivi di un pianeta di 7 miliardi e più di persone, che ritengono il riscaldamento globale solo uno (per quasi tutti: dei più remoti) “rischi mortali” e che legano proprio alla crescita del prodotto globale non solo il proprio reddito e il proprio benessere, ma il soddisfacimento di bisogni fondamentali come l’emancipazione dalla fame e dalla miseria, un’alimentazione equilibrata, condizioni di vita dignitose e l’accesso all’istruzione e alle cure mediche: tutti valori e obiettivi che bisogna “incastrare” con le strategie di contenimento del riscaldamento globale e in genere dell’inquinamento ambientale, ma che non è immaginabile dichiarare politicamente recessivi e sacrificabili al superiore interesse dell’equilibrio climatico, se non immaginando la società come il laboratorio di un mega esperimento totalitario.
Come è stato notato da molti critici dell’opzione decrescista, il paradosso è che i No Pil, denunciando i ritardi delle istituzioni politiche sugli obiettivi dell’accordo di Parigi (e in genere sorvolando sulla mappa geopolitica dei più buoni e dei più cattivi, rispetto all’adempimento degli obblighi previsti) diventano essi stessi una causa del ritardo di decisioni utili, perché l’affermazione della necessità di sacrificare arbitrariamente interessi e diritti di miliardi di persone per assicurare la salvezza dell’umanità sulla Terra rende la questione climatica democraticamente impraticabile e invisa a chiunque avverta il rischio di un radicale e immediato peggioramento delle proprie condizioni di vita.
Ne abbiamo vista una esemplare dimostrazione con l’impennata della bolletta energetica di questi mesi, che ha costretto il governo Draghi a un immediato intervento, per non dissipare il sostegno e la fiducia dell’opinione pubblica nel Green Deal. Ma anche la fiducia costa, e se il Pil decrescesse finirebbero anche le risorse per comprarla.
La ragione per cui scienziati capaci di cogliere la complessità dei fenomeni climatici si rifiutano di riconoscere la complessità politica della gestione della transizione ecologica dipende dalla pretesa arbitraria di usare la fondatezza di una tesi scientifica (ad esempio: il riscaldamento climatico ha una causa antropica ed è fortemente correlato alle attività economiche) per derivarvi la giustificazione di una scelta politica (ad esempio: occorre modificare il sistema sociale, inibendo incentivi e disincentivi di mercato alla produzione e al consumo e dirigendone autoritativamente la riconversione secondo un modello “climaticamente corretto”).
In tutti questi casi, gli scienziati estendono l’aura scientifica a un’opzione invece tipicamente ideologica, che non ha che fare con come funziona il clima, ma con come si ritiene che debba funzionare il mondo. E gli stessi politici intestano alla scienza la forza di verità di scelte che invece dipendono da meccanismi di legittimazione e di giustificazione diverse, che non possono accampare alcuna scientificità. Inoltre, come avviene in ogni caso negli ordinamenti liberaldemocratici, qualunque politica si fonda sul consenso di chi deve sostenerne i costi e sulla garanzia di diritti fondamentali, che non sono politicamente disponibili, neppure in forza di un’emergenza, e tra queste vi sono le libertà economiche e civili, che confliggono direttamente con un ferreo dirigismo climatico.
Si potrebbe dire, con benevola ironia, che questo episodio dimostra che anche il governo degli scienziati, come quello dei filosofi vagheggiato da Platone, rischia di somigliare a un’allucinazione della ragione e non al trionfo della saggezza.