Provare a leggere il risultato di questa tornata amministrativa dall’osservatorio torinese è sicuramente parziale, ma non arbitrario, perché il capoluogo piemontese è stato un laboratorio abbastanza rappresentativo di quel che è successo e soprattutto non è successo politicamente nelle principali città italiane. Non solo il partito del non voto (definizione impropria, sia chiaro) ha ampiamente superato la maggioranza assoluta, avendo votato poco più del 42% degli aventi diritto, ma è stato l’astensionismo, nella sua dinamica e composizione interna, a determinare l’esito del voto e la proporzione nettissima della vittoria e della sconfitta.
Lo Russo al ballottaggio ha stravinto le elezioni con gli stessi voti, circa 169mila, con cui Fassino cinque anni fa le aveva straperse. In cinque circoscrizioni su otto (comprese quelle delle periferie nord e sud della città) Lo Russo ha preso meno voti di quanti ne avesse presi Fassino. Non basta certo questo a rendere la sua vittoria indebolita sul piano della legittimazione politica; ma è più che sufficiente per smentire la vulgata della remuntada della sinistra e della sconfitta del populismo e del sovranismo.
Ha perso Meloni, ha straperso Salvini, si sono dissolti i Cinquestelle. Ma questo racconta più una crisi di fiducia nell’offerta populista, che la rivincita del voto antipopulista, cioè una forza espansiva di proposte e opzioni politiche di segno alternativo a quello che rimane – tantissimo – del mainstream antipolitico.
Nelle grandi città, a partire da Torino, i populisti sono in rotta, ma il populismo è rimasto in sonno, continuando a rappresentare una domanda politica con caratteristiche abbastanza precise, di resistenza o di rivolta, di malcontento o di frustrazione, ma tutt’altro che affascinata da una proposta positiva, poco importa se di destra o di sinistra, di speranza, costruzione, riforma.
L’impressione (si vedranno le analisi dei flussi) è che a Torino, come altrove, la sinistra raccolta attorno al Partito democratico abbia semplicemente tenuto i propri elettori o abbia avuto flussi in entrata e in uscita sostanzialmente equivalenti e non solo non abbia guadagnato voti, ma neppure “elettorati”.
I voti del centro-destra e la stragrande maggioranza dei voti andati cinque anni fa a Chiara Appendino, che oggi sono mancati all’appello per Paolo Damilano e Valentina Sganga, si sono parcheggiati nel non voto.
L’illusione di avere battuto il populismo e il sovranismo e di avere innescato un game change nella politica italiana nasce dal fatto che i voti mancanti non si contano, anche se continuano a esistere e quando riemergeranno torneranno a avere un segno sovranista e populista, fino a che non saranno riconquistati a una normalità politica, che proprio l’astensionismo dimostra essere molto di là da venire.
Peraltro, nella sinistra vincente pochi credono che la sfida populista non sia tanto una sfida di ascolto, quanto di più complicata risocializzazione politica di un elettorato educato per decenni da partiti, giornali e tv alla soddisfazione e al dovere del “voto contro”, a una lettura autoindulgente e criminologica delle cause del declino italiano (la Casta, la corruzione, i furbetti…) e all’illusione, in sé totalitaria, che la politica non sia una competizione e un confronto tra alternative reali, non tra alternative alla realtà, cioè tra verità misconosciute e miracolose, che dagli algoritmi dei social media sarebbero potute transitare nei Palazzi dei potere e fare giustizia di tutti gli intralci – le compatibilità economiche e demografiche della spesa pubblica, ad esempio – alle magnifiche sorti e progressive del desiderio individuale e collettivo.
Questa sfida al populismo inteso come droga della felicità venduta a caro prezzo agli infelici – il prezzo dell’impoverimento economico, dell’alienazione sociale e dell’imbarbarimento civile – non è stata vinta perché semplicemente non è stata neppure riconosciuta come tale.
E infatti incontra come rimedio, nel Partito democratico, la strategia della diluizione per incorporazione, del populismo in doppio petto, del risciacquo nel fiume sacro della sinistra di una demagogia da Gratta e Vinci e da Stato Bancomat. C’è da dubitare che questa strategia possa portare il Partito democratico a governare l’Italia; certamente non porterebbe l’Italia fuori dalle cause e dalle conseguenze del proprio declino.