Ha fatto clamore sulla stampa internazionale la notizia che il primo storico processo del Vaticano contro un cardinale, un principe di Santa Romana Chiesa, si sia già fermato per la violazione delle garanzie di legge contro alcuni imputati, al pari di tanti, troppi processi ordinari che affollano le aule di giustizia italiane.
Il Tribunale dello Stato Vaticano ha annullato ieri il rinvio a giudizio del Cardinale Giovanni Angelo Becciu e dei principali imputati (i finanzieri Raffaele Mincione, Enrico Crasso e Gianluigi Torzi, il funzionario della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi e un altro prelato Mauro Carlino) coinvolti nella vicenda della compravendita di un lussuoso edificio nel quartiere di Belgravia a Londra perché i rappresentanti dell’accusa vaticani, tutti autorevoli giuristi e avvocati, prima del rinvio a giudizio hanno omesso di contestare loro i reati di cui li ritengono responsabili con un formale atto di accusa regolarmente notificato.
Un obbligo elementare e doveroso posto a garanzia degli imputati, il minimo sindacale per uno Stato che come il Vaticano abbia a cuore i diritti umani, tra cui il diritto canonico e le recenti bolle papali pongono anche il diritto di difesa.
Come avviene quotidianamente in ogni palazzo di giustizia, un’indagine governata dal pregiudizio colpevolista di inquirenti e stampa al seguito, quando arriva al vaglio di un giudice mostra la corda delle criticità e dei vizi da cui è afflitta e che emergono per la elementare ragione che viene sottoposta finalmente al contraddittorio con gli avvocati della difesa.
I fatti sono noti: il riacquisto di un prestigioso immobile nel cuore di Londra. Secondo l’accusa sarebbe stato il pretesto di un ingarbugliato complotto finanziario che con la complicità di funzionari e prelati corrotti ha indotto quest’ultima a pagare un prezzo spropositato con corrispondente indebito arricchimento dei consulenti Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi. Il tutto tramite un meccanismo di scatole cinesi e facendo leva sulle difficoltà finanziarie della Segreteria di Stato,
Spesso gli investimenti finanziari causano perdite e forti recriminazioni negli investitori, lo Stato Vaticano ha ritenuto di potersi tutelare sollecitando legittimamente un’indagine penale. Il punto è che gli organi di giustizia competenti a indagare e giudicare sono sue dirette emanazioni.
Il Vaticano secondo la sua Legge Fondamentale emanata il 26 novembre 2000 in sostituzione di quella precedente del 7 Giugno 1929, è uno stato governato da uno degli ultimi monarchi assoluti. L’articolo 1 stabilisce che il potere legislativo, esecutivo e giudiziario fa capo al Sommo Pontefice che lo esercita delegando ad altri soggetti, «ferma restando sempre la possibilità di un esercizio diretto da parte del Pontefice» (G. Della Torre, Lezioni di diritto vaticano).
Con la Legge numero CCCLI (351) del 16 Marzo 2020 il Papa ha modificato la normativa sull’ordinamento giudiziario stabilendo che «i magistrati dipendono gerarchicamente dal Sommo Pontefice (….) sono soggetti soltanto alla legge» e soprattutto «sono nominati dal Sommo Pontefice, il quale designa ciascuno nel proprio ufficio».
Con una simile struttura istituzionale ogni indagine presenta aspetti d’intuibile delicatezza, ma che si sono fatalmente esasperati in una vicenda particolarmente complessa sia per i profili tecnici che organizzativi. Non esistono precedenti di processi simili nella storia giudiziaria del Vaticano.
Per di più i promotori, alle prese con immaginabili difficoltà hanno ritenuto di poterle aggirare con una serie di modifiche legislative ad hoc, sotto forma di provvedimenti amministrativi di diretta emanazione papale: i rescripta. Si tratta di innovazioni di non poco conto che hanno consegnato all’accusa un potere pressoché illimitato di indagine, potendo disporre intercettazioni e addirittura arresti senza alcun controllo di un giudice.
Il problema è che tali norme sono state applicate a un solo processo e ai suoi imputati. A questo si aggiunge un altra criticità: con un’ulteriore innovazione il Papa ha stabilito che il cardinale Becciu sia processato non da un tribunale religioso di suoi pari come sempre prima d’oggi ma da uno ordinario. Un insieme di norme ad hoc possibili in uno stato assolutista ma che nessuno Stato di diritto potrebbe accettare.
Tale particolare struttura giudiziaria ha dimostrato ripetutamente la sua fragilità allorché ha dovuto misurarsi con le giurisdizioni straniere nelle indagini all’estero. Il giudice inglese ha respinto una richiesta di sequestro milionaria a carico di Gianluigi Torzi demolendo la sostanza delle accuse mosse per la vicenda di Sloan Square.
Una analoga problematicità è emersa al vaglio del giudice interno vaticano, anch’esso non disponibile a condividere le semplificazioni di metodo degli inquirenti.
Davanti a una pioggia di eccezioni, i giudici si sono fermati già davanti alle prime due. Oltre a quella dell’omesso interrogatorio vi è quella forse ancora più clamorosa della mancata produzione delle registrazioni dichiarazioni del principale teste d’accusa mons. Alberto Perlasca, già responsabile dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato.
Nelle liste testimoniali compaiono tra i testimoni l’attuale Segretario di Stato Pietro Parolin e il suo numero due, il sostituto Pena Parra (successore di Becciu), che hanno seguito la compravendita riferendone anche al Sommo Pontefice.
Le registrazioni dei cinque interrogatori di Perlasca, quasi tutti senza l’assistenza di un difensore sono fondamentali e il tribunale ne ha chiesto la produzione sin dalla prima udienza.
Sorprendentemente e con grave pregiudizio per lo svolgimento del processo i promotori si sono rifiutati assumendo la necessità di tutelare la riservatezza dei vari soggetti intervenuti negli atti. Ciò ha alimentato dubbi e interrogativi e la mal dissimulata irritazione dello stesso tribunale di fronte a un rifiuto sorprendente di produrre una prova decisiva.
La decisione del Tribunale, certo sofferta, fa intendere che oggi neanche la legittima ansia di rinnovamento portata avanti da Papa Bergoglio può fare a meno di trascurare i principi fondamentali dei diritti umani che sono patrimonio comune anche al diritto canonico, fonte principale di giustizia nell’ordinamento della Santa Sede. Le recenti prese di posizione di autorevoli intellettuali come Ernesto Galli della Loggia e Paolo Mieli testimoniano di una visione culturale radicata.
Vi è da chiedersi tuttavia se un processo modellato su quello inquisitorio dello stato liberale pre-fascista (il Vaticano ha introiettato all’atto della firma dei Patti lateranensi nel ’29 i codici penali allora in vigore) possa reggere di fronte al vaglio giudiziario che deve tener conto della cultura garantista che nonostante tutto è ormai diffusa tra i giuristi.
La sensazione è che le difficoltà dell’accusa nascano da questa evidente contraddizione di conciliare una struttura inquisitoria con i principi tipici del sistema accusatorio che costituisce un precedente che i giudici vogliono mantenere tramite una applicazione costituzionalmente orientata delle norme del processo penale vaticano.
Peraltro eventuali condanne pronunciate in violazione dei diritti costituzionali non troverebbero riconoscimento in Italia e in Europa allorché il Vaticano ne dovesse chiedere l’esecuzione.
Cosa accadrà? È ipotizzabile che in tutta fretta i promotori cercheranno di convocare i sei imputati stralciati per interrogarli in una frenetica lotta contro il tempo onde cercare di poterli poi ricongiungere al convoglio principale, ma resta un problema allo stato irrisolvibile: la volontà dei promotori di produrre le prove richieste.
Se tale rifiuto permarrà il processo difficilmente potrà andare avanti.
Sbaglierebbe gravemente chi volesse riproporre in questa vicenda lo stucchevole schema della giustizia “etica” frenata dai formalismi giuridici, vero è invece che nessuna opera di riforma di uno Stato moderno, neanche della sede del Cristianesimo, può fare a meno di quella religione laica che è il rispetto delle garanzie.
*L’autore fa parte del collegio difensivo nel processo Becciu