“50 Best”, l’organizzazione internazionale che decreta i 50 migliori ristoranti del mondo, le ha conferito il titolo di “Champions of Change”. La chef italiana Viviana Varese è stata scelta tra i tre chef che hanno guidato, negli ultimi 18 mesi, un cambiamento positivo all’interno del mondo della ristorazione e non solo. Accanto a lei, il collega statunitense Kurt Evans, premiato perché ha messo a disposizione il proprio talento per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di porre fine all’incarcerazione di massa, e l’indiano Deepanker Khosla, che durante l’emergenza sanitaria ha trasformato il suo ristorante Haoma a Bangkok in mensa per le persone in difficoltà e ha assicurato il posto di lavoro a tutto il suo personale, formato da immigrati.
Varese è da sempre impegnata ad abbattere le barriere nei confronti della comunità Lgbtq+ e, allo stesso tempo, a favorire l’inclusione sociale. I suoi ristoranti, il Viva Viviana Varese di Milano e il nuovo W Villadorata Country Restaurant in Sicilia, sono orientati all’inclusione del personale, a prescindere da genere, razza, età e orientamento sessuale. Ma è il suo ultimo progetto che sarà finanziato dal premio, con una donazione da parte di “50 Best for Recovery”, iniziativa lanciata lo scorso anno per sostenere l’industria ricettiva anche attraverso una raccolta fondi.
L’idea è di aprire una gelateria a Milano, Viva il Gelato, gestita da donne che sono state vittime di violenza domestica. «Quando ho saputo di aver ricevuto il premio ”Champions of Change” mi sono emozionata tantissimo», racconta. «Incredula è la parola corretta. Ciò che ho fatto, l’ho fatto e lo continuo a fare semplicemente perché penso sia la cosa giusta».
Giusta sì, comune no, se le ha permesso di arrivare a questo premio così prestigioso che punta tutto sull’inclusione e sulla rinascita verso una nuova vita professionale. «In questo momento, cerco di accogliere tutte le cose che mi piace fare, anche se non si conciliano esattamente con la mia vita personale. Ma sento che questo è il momento di reagire», dice. «Forse questa disponibilità a fare nuove cose dipende anche dal fatto che con Viva, il mio ristorante milanese, sono tranquilla: la squadra è ormai collaudata. Quando chiudo posso dedicarmi ad altro e rilassarmi, staccare la spina. Per chi fa questo lavoro avere anche un solo giorno libero significa potersi prendere un po’ di tempo per sé. Io dedico questo tempo a progettare, perché comunque amo quello che faccio».
E proprio mentre pensavi, hai progettato questa gelateria di quartiere, e ne hai fatto un format di inclusione, che parte da un elemento semplice.
Posso realizzare le basi più difficili con i miei pasticceri al ristorante, mentre “fare” il gelato è un’operazione abbastanza facile, che si può imparare con una formazione rapida e non richiede tanta pratica quanto la cucina. È comunque un progetto legato al cibo, ma l’esperienza non per forza dev’essere stellata. In questo caso non avevo bisogno di alta specializzazione: è un lavoro adatto a tutti, molto facile da trasmettere anche a donne senza esperienza. E poi volevo un tipo di negozio legato al cibo che si potesse facilmente sostenere da solo. Il lockdown ci ha insegnato che questa caratteristica, per un locale, è fondamentale.
Quali sono i prossimi passaggi?
Aspetto di mettere a terra il progetto che ho in mente cercando il posto adatto. E poi inizieremo i colloqui. Risentirò Cadmi e Unhcr perché la prima selezione verrà fatta dalle associazioni, che mi forniranno poi una prima lista di donne tra le quali trovare le persone più adatte al lavoro. Per me è importante avere il supporto dei professionisti, e con loro partiamo dall’uso corretto delle parole, prima ancora che dei rapporti: perché queste persone devono essere tutelate, innanzitutto. E la prima forma di tutela è il linguaggio da impiegare in momenti delicati, come il colloquio. Di sicuro cercheremo di aiutare le donne che provengono dall’Afghanistan, sono tra quelle che hanno più bisogno di aiuto, e cercheremo di fare qualcosa per loro. Inoltre, per le persone fuggite da quella terra, vorrei organizzare una cena benefica, per raccogliere fondi. Ho tante amiche che lavorano lì, sul territorio, e so quanto siano necessari dei finanziamenti.
Qual è la candidata ideale?
L’opposto di quanto si legge solitamente negli annunci! Stiamo cercando donne con più di 35 anni e, se sono mamme con bambini, meglio. Il mio cliente prototipo è il bambino. I bambini che vogliono il gelato devono essere il 50% dei clienti: e chi meglio di una mamma può accogliere un bambino? Di sicuro lo sa trattare meglio!
Che cosa ti aspetti di trovare nelle persone che sceglierai per questo progetto?
Spero di riuscire a trovare delle persone che abbiano voglia di vivere questa sfida come un riscatto. Questo alla fine è un lavoro: svolgeranno una professione normale, ma in un clima accogliente. Un lavoro che, spero, offra loro l’occasione per poter vivere una vita normale. Spero che abbiano voglia di mettersi in gioco. Tutti sperimentiamo delle sofferenze, spero che chi ne ha avute di più possa gioire maggiormente e vivere in un clima più accogliente».
Cosa che tu hai già fatto in passato.
Ho già lavorato in passato con i rifugiati, attraverso uno stage con due ragazzi che poi sono stati assunti. Erano molto giovani e sono stata fortunata. L’aspetto più difficile è stato aiutarli ad acquisire fiducia negli altri. Avevano sofferto talmente tanto che è stato davvero complesso superare la diffidenza.
Quanto di sé serve mettere in questa professione?
In questi mesi di chiusura abbiamo sofferto un sacco: non vedo l’ora di tornare ad essere produttiva, e di trovare le persone che mi accompagnino. Più cose farò, più avrò bisogno di persone che abbiano voglia di crescere, progettare e prendersi un pezzo di responsabilità. Mi manca il fatto di trovare dei giovani che abbiano davvero voglia di fare questo mestiere: capisco che tutti hanno sofferto e stanno soffrendo, è un momento di crisi e in tanti non vogliamo più fare la vita di prima. Ma noi, abituati a vivere la sera, ci rendiamo conto che basta poco per tornare nel turbine: il vero motivo è che un po’ ti piace questa vita, altrimenti non la reggeresti.
Hai qualche timore per questo progetto?
L’unica mia paura adesso è che ci blocchino con un altro lockdown. Il resto è un’opportunità: non mi fa paura nulla.