Il Grande Romanzo SoncinianoMa come fa Piperno a sapere tante cose su di me da averci scritto un libro?

A pagina 46 di “Di chi è la colpa” (che ho letto quando, dopo due mesi, sono riuscita a rintracciarne la mia copia nel disordine da cui era stato inghiottito) avevo già buttato via tutti gli appunti per il capolavoro letterario sul rapporto della mia famiglia coi soldi con cui mi baloccavo da un decennio. Ah, comunque, di chi è la colpa? Della Moreau, la mia prof di francese al liceo

Fotografia di Gaia Menchicchi

Da dove cominciare. Dal sospetto che Alessandro Piperno sia in grado di tenere una pallina da flipper in gioco più a lungo di me. Dal perché ci ho messo due mesi a leggere “Di chi è la colpa”. Dalla pagina (sua, mica mia) alla quale ho buttato via tutti i file del Grande Romanzo sul rapporto della mia famiglia coi soldi con cui mi baloccavo da un decennio. Dalla Moreau.

La Moreau – della quale non ricordo il nome proprio, perché è stata sempre e solo «La Moreau» – era la prof di francese che in quinta non voleva farmi ammettere all’esame di maturità. Diceva che avevo fatto troppe assenze, e aveva ragione. Potrei inventare molte scuse: avessi diciott’anni oggi, direi che avevo l’endometriosi e forse pure l’asperger ed era inaccettabile discriminazione pretendere che – nientemeno – andassi a scuola. Ma la verità è che ero una diciottenne: pensavo più a scopare che a Proust. Ci volle Baricco in tv, non molti anni dopo, a farmi leggere Proust, e solo perché anche Baricco aveva l’aria di uno che pensava più a scopare che alla letteratura.

La colpa della Moreau non era di rimarcare ch’ero una ciuca: la colpa della Moreau era di non riuscire a farmi appassionare alle cose di cui parlava. La Butler – quella di letteratura inglese – era bravissima in questo, e infatti è colpa sua se ho perso tanta giovinezza dietro a quella servetta di Emily Brontë.

Se la Moreau avesse saputo fare il suo lavoro quanto la Butler, non mi sarebbe toccato recuperare – da sola e in ritardo – Balzac. Una cosa che nessuno ti spiega, finché hai sinapsi giovani, è che i recuperi tardivi non son mica la stessa cosa: le cose non ti s’imprimono più, quando cresci e smetti d’essere carta assorbente. Ogni volta che voglio citare Balzac – cioè quasi ogni giorno – devo andare a controllare se mi ricordo tutto giusto, mentre quel cretino di Heathcliff che urla sotto le finestre di quella cretina di Catherine potrei citarlo nel sonno.

Ci pensavo sabato, mentre Alessandro Piperno, sul palco del festival di questo giornale qua, diceva che (sintesi mia) bisogna essere cialtroni come Stendhal, mica tormentati come Flaubert. Ci pensavo perché mi dicevo che, se invece della Moreau avessi avuto Piperno, sarei stata una studentessa modello; ci pensavo perché poi mi dicevo che Piperno ha la mia età, mica poteva essere il mio prof al liceo; ci pensavo perché concludevo, in questo dibattito da pazza furiosa con me stessa, che a diciott’anni sicuramente Piperno era già abbastanza sapiente e secchione da potermi fare da docente.

Soprattutto, ci pensavo perché a un certo punto Piperno ha detto che Stendhal ha scritto “La Certosa di Parma” in cinquantatré giorni, che sono più o meno il numero di giorni che io ci ho messo a ritrovare “Di chi è la colpa” (l’ultimo romanzo di Alessandro Piperno, lo pubblica Mondadori) nel disordine che l’aveva inghiottito appena era arrivato, e poi a reperire una notte insonne e un viaggio su un Frecciarossa con wifi non funzionante, ovvero le uniche due occasioni in cui non gioco a flipper.

In “The Morning Show”, bruttissima serie di Apple+ che guardo perché, quando nessuno ti ha insegnato la disciplina da piccola, poi da grande te la imponi in settori assurdi, e quindi finisci sceneggiati che potresti mollare, un personaggio spiega a un altro che non deve temere il rumore di fondo degli scandali social: sono come quei suoni e quei lampi laterali che vengono dai lati del flipper, distraendoti dall’obiettivo di fare più punti.

Ricordo bene l’ultima volta che non ho giocato a flipper: era l’estate dell’85, i miei avevano comprato una casa in campagna in un posto dimenticato da dio e soprattutto dalle antenne televisive, e tutta quell’estate avevo una sola cosa da fare: leggere “Guerra e pace”. Nessuna distrazione, nessun lampo laterale, nessuna serie televisiva così brutta che ne guardi solo altre diciotto puntate, nessuna notifica (nell’85 le notifiche erano quelle dei tribunali, ma avete capito cosa intendo). Chi ci ridarà gli amori perduti, le gomme bucate, i pomeriggi di domenica, diceva uno Stefano Benni di quegli anni; chi ci ridarà l’attenzione ininterrotta che serve per i romanzi, per scriverli e per leggerli, quella che oggi si riesce a trovare solo negli anfratti di certe notti fonde in cui tutti dormono e il tribunale del Twitter non ti notifica.

Per due mesi, gli amici mi dicevano che “Di chi è la colpa” «è molto Piperno». Chissà cosa volevano dire, mi chiedevo mentre mi ripromettevo di scovare il libro nascosto sotto qualche valigia non disfatta e attendevo l’insonnia risolutiva. Probabilmente che, col tema della colpa, Piperno era riuscito a tirar dentro tutti i suoi temi: l’inadeguatezza e la presentabilità sociale, i veri ricchi e i finti ricchi, gli ebrei che se ci sono gli ebrei allora sembra che il tuo tema sia quello (nessuno dice mai che “Il Gattopardo” è un romanzo di cattolici).

Poi sono salita su un treno, il wifi non andava, i tramezzini erano finiti, e a pagina 46 avevo già buttato via le mie pagine decennali. Pagina 46, ve lo dico casomai anche voi aveste perso il libro tra un lavandino e lo specchio, è dove Piperno mi sputtana (come fa a sapere tutte queste cose di me?) dicendo «Solo chi è nato in una zona sismica o alle falde di un vulcano attivo può farsi un’idea relativamente adeguata di cosa significa venire al mondo in una famiglia indebitata fino al collo». Più andavo avanti più mi sputtanava a moltitudini, arrivi a «doveva essere una faticaccia niente male interpretare tutto il santo giorno la parte dell’erede designata» e dici che parla di te, poi vai avanti qualche riga e non sei più quella lì, sei il fratello che «da bravo maschio Sacerdoti, era sempre a caccia di nemici». Ma tu guarda questo stronzo quante cose sa di me.

Come fa? Me lo chiedevo mentre spiegava Stendhal e Flaubert – sa fare il romanziere e pure il divulgatore: ma tu guarda questo stronzo quanti talenti ha – e mi rispondevo che sì, non stare tutto il giorno a visitare lo zoo di vetro dei social aiuta la concentrazione, ma soprattutto c’entra Roma. La sua immondizia, le sue buche, le sue pantegane. Tempo fa un altro romanziere m’ha detto che aveva spostato la scrivania in un punto con una vista più bella e temeva la sua nuova opera ne stesse risentendo. Bisogna sempre stare in posti bruttini, lo dicono tutti quelli bravi: la bellezza distrae.

Evidentemente lo pensava anche Stendhal, visto che, come ha sapientemente notato Piperno e non ebbe la furbizia di dirci la Moreau, “La Certosa di Parma” lo scrisse «a Civitavecchia, un posto dove nessuno di noi scriverebbe un romanzo». Bisogna stare in camere senza vista, in province irredimibilmente tragiche (Civitavecchia, o al massimo Roma), bisogna stare vicino alla mediocrità, per concentrarsi abbastanza da scrivere, leggere, pensare all’immortalità. Lontani dall’estremamente bello e dall’estremamente brutto. Cioè dai flipper, cioè dal rumore di fondo, cioè dai social. A meno che non alle opere immortali, si ambisca, ma ai cuoricini.

Almeno del non avermi spiegato questo, la Moreau non è colpevole: al massimo avrebbe potuto mettermi in guardia dal giocare troppo a PacMan sul Vic20.

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