Vite dolentiQuelli che oggi pontificano su Twitter, domani saranno prof di mio figlio

Devo insegnare al mio bambino a mentire, a non scrivere nessuna frase compromettente perché tutto quello che dirà potrà essere usato contro di lui nei social? Ma come siamo finiti in questa ottusa era dell’autocensura? Semplice, ci siamo dati una spinta da soli verso il burrone, ma gridando allo sgambetto

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L’autocensura non è di per sé un male, se ad applicarla sono i mediocri. Purtroppo per noi, essendo mediocri i mediocri, ad autocensurarsi sono perlopiù persone che hanno qualcosa da dire – e che non sapremo mai -, o che perlomeno hanno un lavoro e non possono stare tutto il giorno a discutere con amici immaginari. Ho pensato molto a una cosa che Makkox ha detto durante il panel con Guia Soncini a Linkiesta Festival, cosa che vado a riassumere brevemente: nelle chat tra amici si parla liberamente, perché ci si conosce, perché il contesto è chiaro a tutte le persone coinvolte.

Che si parli liberamente nelle chat di amici mi è parso ragionevole, ma a me il dubbio che sia effettivamente così è venuto. Personalmente ho smesso di lasciare la verità per iscritto, non mi piace che si rovisti nella spazzatura. Ci vuole un tempo in più di pensiero, siamo meno veloci, gli scenari peggiori richiedono immaginazione. Le telefonate si possono registrare, ma ci vuole una fatica che l’interlocutore medio non ha voglia di fare; gran parte delle mie strategie di sopravvivenza si basano sull’inesauribile fiducia nell’altrui pigrizia.

Ci siamo messi nella condizione, amara, di non dover sbagliare mai. Come ci siamo finiti in questo casino? È molto semplice, ci siamo dati una spinta da soli verso il burrone, ma gridando allo sgambetto. Una generazione vittima di Sui monti con Annette? Probabile.

I miei due neuroni a specchio si chiedono se io debba insegnare a mio figlio a non sbagliare, a mentire, a non lasciare niente di scritto, che tutto quello che dirà potrà essere usato contro di lui su Twitter. Dobbiamo buttare nell’umido tutte le belle parole sul fatto che nella vita si cade, ci si rialza, che bisogna essere compassionevoli, generosi, empatici, e che solo alla morte non c’è rimedio? Adesso pare che oltre alla morte non ci sia rimedio per nulla. Devo insegnare a mio figlio come si lucida una ghigliottina? Vaporella? Alcool e carta di giornale? Borotalco?

Tra dieci anni i professori di mio figlio saranno presumibilmente i ventenni o trentenni che oggi pontificano su Twitter, e che io sto puntualmente classificando in cartelle e sottocartelle da tirare fuori quando l’occasione farà di me una ladra. È questa la vita degli altri, cioè la mia?

Spesso leggo insegnanti che raccontano le loro vite docenti e dolenti, persone a cui non frega nulla di mettere nero su bianco che a loro mica interessa il nozionismo, se il tizio che faceva fuori le mogli fosse Enrico VI o Enrico VIII, a loro interessa la passione, la verosimiglianza, l’amore per la materia. Sarà che a me sembra lo stesso discorso sull’intenzione di Pio e Amedeo (cosa che mi guardo bene dal trascrivere), fatto sta che se trovassi sui social l’insegnante di mio figlio che dice una cosa del genere, alla prima insufficienza faccio presente che mio figlio è sì una capra, ma una capra appassionata, cosa volete che sia non conoscere Shakespeare in confronto all’avere un cuore d’oro? E per quale motivo dovrebbe andar bene avere una generazione di analfabeti, ma di buone intenzioni?

Ad esempio, più di una volta ho letto che sarebbe offensivo chiedere «che lavoro fai?» durante una conversazione. Pare che abbiamo finito il tempo libero per pensare alle stronzate, pare che adesso si sia reso necessario chiedere gli straordinari al tempo libero. Capitalista! Classista! Come osi chiedermi che lavoro faccio che magari non l’ho scelto!

Quindi io a questo punto devo dire a mio figlio: bello di mamma, se qualcuno ti chiederà che lavoro fai chiama il centodiciotto, e ricordati: potrai anche trovare la cura contro il cancro, ma non potrai mai dirlo a nessuno, perché il tuo lavoro non ti qualifica come persona. Vittime come siamo dell’effetto Barnum e di profezie autoavveranti, è molto complesso prevedere il futuro, anche se sicuramente esiste una puntata dei Simpson che ce lo spiega.

Forse i nostri figli smetteranno di scrivere per non essere denunciati per reati che saranno inventati tra vent’anni, di parlare per non sbagliare i pronomi, di studiare perché tanto faranno un lavoro che non potranno rivelare a nessuno se non ai parenti stretti. Oppure siamo noi che stiamo facendo questa fine? «We mourn in black; why mourn we not in blood?». Chissà se poi era Enrico VI o Enrico VIII, se solo avessi studiato. 

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