Per Bruno Tabacci, quella di gennaio sarà la quinta elezione di un presidente della Repubblica. Ma anche per un veterano del Parlamento come lui, a cui tanti riconoscono un ruolo da play maker, al momento non esiste una soluzione chiara per il bene del Paese. L’unica via d’uscita possibile, dice a Repubblica, è che «i partiti, tutti, prima di infilarsi in vicoli perigliosi chiedano a Mattarella un ultimo sacrificio: il Paese ha bisogno di continuità a tutti i livelli».
Rispetto al passato, in questa corsa al Colle «c’è un sovraccarico di responsabilità», spiega Tabacci. «Il taglio dei parlamentari già varato riduce a 675 il numero dei grandi elettori. Se si sceglie male o con prove di forza rischiamo che la nuova presidenza possa venire contestata per carenza di legittimazione».
Senza dimenticare il peso che su questo passaggio esercita l’eventualità del voto anticipato. «È così, inutile negarlo», ammette. «Anche perché chi in preda all’eccitazione ha approvato la legge sui vitalizi ha introdotto l’impossibilità di riscattare la “pensione” se non si fanno quattro anni, sei mesi e un giorno di legislatura. Se si andasse al voto, evaporerebbero i contributi di 701 parlamentari».
Secondo Tabacci, anche se Draghi «si presentasse con un ampio sostegno per essere votato al primo turno il rischio che venga impallinato c’è. Ricordo il precedente di Ciampi, nel ’99: erano tutti d’accordo tranne la Lega, sulla carta, ma gli vennero a mancare comunque 180 voti… Non è questo il punto. Il punto è che non si può rinunciare, in questo momento, a una continuità istituzionale».
Ma niente “soluzione Giorgetti” con Draghi che regge il Paese anche dal Quirinale. «Il presidenzialismo di fatto, non esiste, non siamo in Francia e servirebbe una riforma costituzionale», dice Tabacci. «La lotta al Covid che non è finita, l’esigenza di rispettare le scadenze del Pnrr, e la necessità di proseguire in una fase di rilancio economico suggeriscono che Draghi rimanga a Palazzo Chigi. La continuità, per me, significa che non possiamo giocarci né Mattarella né Draghi, gli uomini che hanno restituito dignità e rispetto al Paese, per fare un salto nel buio verso elezioni anticipate, verso un falso ritorno alla normalità».
Il problema, aggiunge, «non è Berlusconi, ma il fatto che una candidatura imposta da una parte politica sull’altra – e penso anche all’ipotesi Gentiloni – finirebbe per spaccare la maggioranza di Draghi. Che un minuto dopo il voto per il Colle si ritroverebbe a Palazzo Chigi in uno scenario diverso, temo troppo stretto per un personaggio della sua dimensione. Così non avremmo l’attuale premier né da una parte né dall’altra».
Tabacci esclude pure che ci sia un accordo ad ampio spettro come quello che portò all’elezione di Cossiga nel 1985: «Il “metodo De Mita” fu determinato da un’intesa fra grandi partiti di popolo come la Dc e il Psi, i cui segretari avevano tutti piena corrispondenza con i gruppi parlamentari. Oggi, diciamocela tutta, i leader di partito non comandano granché».
E non scommetterebbe nemmeno sulla galassia centrista: «Chi crede che il Centro sia un’entità definita, un blocco massiccio, si sbaglia di grosso. I moderati hanno storie e propensioni diverse». Tabacci si scrolla di dosso anche il ruolo di play maker, con almeno dieci voti a disposizione per il futuro presidente: «Guardi, al massimo controllo il mio. Posso offrire qualche consiglio».
Ma una soluzione c’è, secondo Tabacci. Ovvero «un appello di tutti i partiti perché Sergio Mattarella svolga un altro mandato. Pieno. Quando lo stesso Mattarella richiama una dottrina che esclude il semestre bianco e la rielezione dice una cosa che ha una sua logica. Ma è vero pure che i presidenti citati, Segni e Leone, per motivi diversi non poterono neppure terminare l’incarico. Non avevano davanti lo scenario che ha oggi l’attuale Capo dello Stato. La cui saldezza, non dimentichiamolo, in questi anni ha fatto da contrappeso alla fragilità del Parlamento».