L’Articolo 16 è il punto di non ritorno. Attivarlo, come il Regno Unito pare intenzionato a fare dopo mesi di stallo sull’Irlanda del Nord, significa sospendere gli accordi seguiti alla Brexit e, di fatto, entrare nel terreno di un «no deal» che sembrava scongiurato grazie a trattative pluriennali, eppure non è mai stato così reale. Londra ha minacciato di ricorrere alla norma più volte, con la speranza di fare tabula rasa e rinegoziare gli accordi. La notizia è che oggi è l’Unione europea quella pronta a far saltare il tavolo.
Negli anni, Bruxelles si è distinta per la calma olimpica con cui – a parte qualche ramanzina, rimasta confinata nelle dichiarazioni – ha disinnescato l’ostruzionismo inglese. Ha difeso la sua linea con coerenza, senza lasciarsi coinvolgere nello psicodramma che montava oltremanica. Cambiavano i governi, ma non la fermezza della commissione nel rispondergli: alla fine, a ritrattare sono (quasi) sempre stati gli isolani. Se alla fine un compromesso s’è trovato, buona parte del merito va ascritto alla perseveranza europea.
I flussi commerciali tra l’Ulster, le sei contee sotto sovranità britannica ma rimaste all’interno del mercato comunitario, e la madrepatria sono stati salvati dalla paralisi dei controlli doganali grazie alle tregue concesse dall’Ue, mentre Londra chiedeva una moratoria permanente. A ottobre, Bruxelles ha cercato di sanare la crisi con una serie di concessioni, che sarebbe più corretto chiamare correttivi. Su tutti, lo snellimento delle ispezioni sui generi alimentari (emblematico il caso delle salsicce) scambiati tra le due sponde del mare d’Irlanda. Nonostante le aperture, l’esecutivo britannico respinge il ruolo di garante degli accordi che attualmente spetta alla Corte europea di Giustizia.
Venerdì a Londra si (ri)vedranno le controparti, rappresentate da Lord Frost e dal vicepresidente della commissione Maros Sefcovic. Londra pare sempre più determinata a innescare l’Articolo 16, una mossa che farebbe naufragare i colloqui. Dowing Street vorrebbe riscrivere le condizioni sull’Irlanda del Nord, ma l’Ue potrebbe reagire congelando anche il resto del patto di recesso, come ha confermato il ministro degli Esteri irlandese al Financial Times.
«Credo che il Regno Unito stia chiedendo deliberatamente ciò che non può ottenere», ha detto Simon Coveney. Una posizione simile a quella scandita dal premier di Dublino, Micheál Martin: «Invocare l’Articolo 16 sarebbe irresponsabile – ha detto –. Avrebbe implicazioni più profonde sul rapporto tra Gran Bretagna e Unione europea». Dello stesso parere è anche un ex primo ministro britannico, per di più conservatore, come John Major. «Sarebbe una stupidata colossale», ha commentato.
Ma cos’è questo famigerato «Articolo 16»? Appartiene a un accordo speciale, centrato sull’Irlanda del Nord, all’interno di quelli per la Brexit. L’intesa è stata raggiunta nell’ottobre 2019 e da allora è ribattezzata «il protocollo» dalla stampa e dagli addetti ai lavori. Mirava a sventare il ritorno a un confine rigido, o hard border, tra le due Irlande, istituendone uno di fatto in mezzo al mare, perché l’Ulster è rimasta parte del mercato unico. Ciò ha posto le basi perché scattassero quei controlli doganali che l’allora candidato Boris Johnson aveva escluso categoricamente nella campagna elettorale del 2019.
L’autodifesa dei conservatori è che l’Ue stia applicando «troppo rigidamente» quel testo, da declinare invece con flessibilità. Frost ha proposto un sistema alternativo, senza barriere doganali, purché le merci siano conformi agli standard europei oppure a quelli britannici, che però sono spesso diversi. Attualmente, occorre aderire a quelli comunitari: un punto su cui Bruxelles non sembra disposta a cedere, ma nella sua ultima offerta ha previsto condizioni che eviterebbero l’80% dei controlli e, soprattutto, dimezzerebbero la mole di burocrazia necessaria all’import-export.
Un passo in avanti. Secondo un sondaggio dell’università di Belfast, infatti, la maggior parte della popolazione locale ha accolto con favore (il 52%, meglio del 42% rilevato a giugno) il progetto. Che però non ha soddisfatto il governo centrale. Così sul tavolo resta l’Articolo 16 del protocollo. Prevede misure di «salvaguardia» che possono essere adottate in via unilaterale da uno dei due blocchi qualora si presentassero «seri» problemi o una distrazione degli scambi mercantili. In particolare, si parla di «difficoltà economiche, sociali o ambientali» di carattere persistente. In queste fattispecie, si possono sospendere parti dell’accordo.
Il punto è che non ci sono linee guida né chiarezza su cosa si intenda per «gravi criticità». L’interpretazione è soggettiva, tanto che Downing Street lo scorso giugno ha ritenuto ormai raggiunte queste condizioni, pur decidendo di congelare (almeno per il momento) l’attivazione dell’articolo. Per questa «opzione nucleare» serve un mese di notifica formale, tranne per «circostanze eccezionali». Di nuovo, in una saga dove le due controparti non sono andate d’accordo su nulla, «eccezionali» per chi?
Anche qualora si arrivasse a questo scenario limite, però, la sospensione temporanea di stralci del protocollo, almeno in teoria, non dovrebbe pregiudicarne l’ossatura. Tradotto: metterne in pausa una parte, in questo caso quella (ampia) sul commercio, non dovrebbe intaccare il resto degli accordi. Si prescrivono, tra l’altro, confronti costanti e una revisione ogni tre mesi, nella quale decidere se ritornare allo status quo o mantenere in vigore le limitazioni. Se ricorresse allo strumento, il Regno Unito vorrebbe convincere l’Ue a una soluzione più morbida sulla regione.
A sua volta, Bruxelles potrebbe rispondere in modo da controbilanciare l’impugnazione. Nel quadro evocato dal ministro degli Esteri irlandese, decadrebbe l’intero patto di recesso con Londra. Ma più probabilmente la commissione resterebbe ancorata al criterio della proporzionalità, con una reazione misurata e circoscritta. Una via possibile è quella dei ricorsi legali; una estrema passerebbe da sanzioni contro i prodotti inglesi, verso una «guerra delle tariffe» che viene periodicamente evocata dagli analisti, anche se prima si dovrebbe tentare l’arbitrato internazionale.
Solo qualora queste ipotesi si rivelassero a fondo cieco, potrebbe venire scardinato l’accordo quadro, perché rinnegato su impulso di uno dei due contraenti. Anche in questo caso, però, ci sono dei tempi tecnici non indifferenti: un anno di preavviso, per la precisione, oppure nove mesi qualora a cadere fossero solo la parte commerciale. Ma in un arco di tempo così vasto, la storia della Brexit lo insegna, potrebbe succedere di tutto.