Forse è tempo di rivedere almeno in parte il ragionamento di denuncia che pur giustamente si è fatto sul rapporto perverso tra magistratura militante e giornalismo ad essa associato: e di precisare che non si è trattato di connubio, ma di filiazione.
L’intimidazione giudiziaria, l’abuso inquirente, lo strapotere del contro-governo delle Procure della Repubblica, erano, e rimangono, meno fenomeni originari che creature della legittimazione giornalistica. E non nel senso che non ci fossero già prima della trasformazione dei giornali e delle televisioni in una perenne ribalta Toga Pride, ma nel senso che senza quell’accreditamento mediatico sarebbero rimasti al rango di una comune malversazione.
Trent’anni dopo, la requisitoria contro l’innocente qualificato «cinico mercante di morte» sarebbe stata reiterata dal palcoscenico quotidianamente offerto dal giornalismo procuratorio agli influencer della magistratura combattente, quelli che non ascolterebbe nessuno se dicessero al bar, o in famiglia, o alla scorta, che gli assolti sono colpevoli che l’hanno fatta franca o che un po’ di galera per gli innocenti è dopotutto fisiologica: ma lo dicono in televisione, o sui giornali che senza perplessità incassano e rilanciano quegli spropositi.
Si potrebbe obiettare che chi arresta è infine il magistrato, non il giornalista che gli regge il microfono e ne canta le gesta. Ma l’errore è proprio in questa obiezione: perché la vera pericolosità dell’arbitrio, della violenza del potere, dell’abuso, non sta nel fatto che siano commessi ma nella circostanza che siano legittimati. E l’illegalità giudiziaria non si legittima da sola, ma nel battesimo giornalistico.