Le storie dei giornali, in genere, le scrivono i giornalisti che ci hanno lavorato, che li hanno diretti o ne sono stati cacciati. Sono storie di parte, per lo più autobiografiche, occasioni per regolare i conti con rivali e avversari, per parlare bene degli azionisti amici e tirare stoccate ai politici ostili. Pierluigi Allotti e Raffaele Liucci non vengono dal mondo del giornalismo, sono storici onesti e rigorosi: il sottotitolo del libro che insieme hanno scritto per il Mulino Il “Corriere della sera”. Biografia di un quotidiano, sottolinea la distanza delle loro biografie rispetto a quella del protagonista, che è appunto un giornale, trattato come vero e proprio organismo vivente, e alla biografia della nazione che nel giornale in qualche modo si rispecchia. Non hanno conti in sospeso con nessuna delle persone coinvolte, Allotti e Liucci, sicché la loro ricostruzione dei fatti (quasi un secolo e mezzo, dalla fondazione nel 1876 all’alba dell’era Mieli-de Bortoli, anni novanta del ‘900) è oggettiva e priva di ogni animosità o partigianeria.
Non che la distinzione tra buoni e cattivi sia cancellata del tutto. I cattivi ci sono eccome, e già li conoscevamo bene, dal fascismo che estromette il liberale Luigi Albertini (minacciato per anni di vedersi radere al suolo «l’indegna baracca» di via Solferino) fino alla piovra di Licio Gelli coi suoi tentacoli protesi dentro la redazione. Ma gli autori non sono teneri neppure verso i potenti sindacati dei giornalisti e dei poligrafici, colpevoli di avallare i faraonici progetti di Bruno Tassan Din, il capo del gruppo Rizzoli iscritto alla P2, che prometteva espansione senza licenziamenti. Nelle parole di Giampaolo Pansa, era come quei giocatori di poker che «di fronte alle perdite crescenti, non vedono strada diversa dal rilanciare, rilanciare senza fermarsi», ma Consiglio di redazione e consiglio di fabbrica non facevano granché per contrastarlo.
Peraltro, a un direttore come Franco Di Bella, giustamente criticato per la sua appartenenza alla loggia, si riconosce non soltanto di avere lanciato un formidabile inviato di guerra come Ettore Mo, di avere promosso a editorialista l’antifascista Leo Valiani e di avere ospitato i coraggiosi articoli di Andrea Purgatori sulla strage di Ustica, ma di avere saputo «interpretare proficuamente» lo spirito del tempo, «dalle prime avvisaglie del riflusso nel privato al crescente distacco tra Paese reale e Paese ufficiale, reso ancor più lampante dal terremoto d’Irpinia», fino al pericolo della corruzione, «offuscato dall’emergenza terroristica».
Nella lista dei buoni rientra a pieno titolo Alberto Cavallari, che succede a Di Bella e traghetta il Corriere in uno dei passaggi più tempestosi della sua storia, dall’81 all’84. Il libro lo descrive come un grande inviato, «un professionista dai vasti orizzonti» ma dal «carattere impossibile», «capace di dividere la redazione in “cavallariani” e “anticavallariani”». Una spaccatura quasi tribale, tipo Serbi e Bosniaci, che sopravviverà a lungo anche dopo la sua uscita di scena: da una parte redattori che si definivano “prima socialisti e poi giornalisti”, dall’altra militanti che riscrivevano le notizie o i titoli sgraditi a Pci e Cgil. Ogni nuovo assunto veniva schedato in base a questo schema, come fosse un esame del sangue, e chi non rientrava in nessuna delle due fazioni rischiava di finire bullizzato da entrambi. Comunque, onore al merito, concludono Allotti e Liucci: Cavallari riuscì tra mille difficoltà a «sfornare ogni giorno un giornale forse un po’ anodino, ma libero e trasparente rispetto alle burrasche aziendali».
Un altro dei buoni è Ugo Stille, al secolo Misha Kamenetsky, la cui nomina (dopo il licenziamento, nel febbraio 1987, di Piero Ostellino, «il liberale che piaceva ai socialisti») fu salutata da una redattrice, Giulia Borgese, «come un benefico acquazzone sull’Etiopia assetata». Ebreo di origine russa, antifascista e amico di Giaime Pintor, decano dei corrispondenti dagli Stati Uniti, gli autori lo definiscono «un personaggio tanto prestigioso quanto inadatto a guidare un’organizzazione così complessa» in un momento particolarmente critico, con «un mercato concorrenziale ormai dominato dal quotidiano di Scalfari che aveva costretto il Corriere a subire l’onta del sorpasso». Stille, «un sessantasettenne con il cuore malandato», una sorta di «Oblomov reincarnato» abituato a lavorare in pigiama e in solitudine, finirà per delegare di fatto la direzione a Giulio Anselmi, per poi tornare a vivere nell’amata casa di New York.
Ma la sorpresa maggiore del libro riguarda uno dei numi tutelari della cultura di sinistra, Giulia Maria Crespi. Erede della dinastia di industriali cotonieri proprietari di via Solferino dal 1885, si fa notare già prima del Sessantotto per la sua intraprendenza e il suo spirito ribelle, deciso a superare il tradizionale conservatorismo del Corriere. Il soprannome di zarina non nasce per caso. Come le scrive Indro Montanelli in una letteraccia del 1965: «Lei, cara Giulia Maria, è la proprietaria del Corriere ma non è la nostra padrona. Rifletta su questa distinzione, perché ho l’impressione che lei non l’afferri bene. Ed è strano, per una persona che professa idee “progressive”. Noi, invece, poveri reazionari, abbiamo in proposito idee molto chiare».
Quando poi, il 3 marzo del 1972, la zarina licenzia Giovanni Spadolini (per sostituirlo con il più dinamico e innovativo Piero Ottone), è ancora Montanelli a parlare di «modo autoritario, prepotente e guatemalteco». E lo stesso Comitato di redazione (non certo tenero verso il direttore uscente), informato del siluramento «con motivazioni vaghe e solo verbalmente espresse» proclama uno sciopero per protestare contro «un metodo che volutamente ignora la dignità professionale».
Due anni dopo, Giulia Maria cede la propria quota ad Andrea Rizzoli, un editore puro dietro il quale però si muove la Montedison di Eugenio Cefis, appoggiato pare dal leader Dc Amintore Fanfani. È la fine dell’era Crespi, durata ottantanove anni, e l’apertura di una stagione densa di ombre inquietanti e di torbide manovre. Come commenta un dirigente dell’epoca, «la prima generazione crea, la seconda conserva, la terza distrugge».
La conclusione di Allotti e Liucci è spietata: «La generosa ma sin troppo emotiva Giulia Maria non possedeva il sangue freddo e la diplomazia necessari per amministrare un quotidiano come il Corriere in un periodo in cui le grandi testate erano divorate da deficit paurosi». Sarà una splendida presidente del Fai da lei fondato, ma come imprenditrice della carta stampata, meglio stendere un velo.