Una delle cose che ho sempre invidiato ad alcune generazioni precedenti è l’idea di crescere in sintonia con un gruppo o un cantante, più o meno della stessa età. In apparenza l’abbiamo fatto tutti, in ogni decennio, ma crescere in un altro senso: segnare delle fasi formative, delle evoluzioni intellettuali, sperimentali, culturali, in parallelo con gli album in uscita. Prendendolo in mano, vedendo la storia e la politica e lo spirito di una generazione rivoluzionarsi nelle settimane successive, ascoltandolo mille volte.
Oggi con “Red” ri-scritto, re-released anche con un corto al Lincoln Center, è scoppiata una festa in ogni città – come con la beatlemania – di nostalgia allegra: persone vestite di rosso per strada, che ballano su canzoni scritte a 21 anni e riprese a 31. E l’esibizione al Saturday Night Live è stata emozionante: dieci minuti di parole e poesia, intricate come le canzoni di un tempo in un cafè beat.
Per Giambattista Vico la Storia non è lineare ma è fatta di cicli con un’infanzia, un’adolescenza, un’età adulta e una vecchiaia. Lo vediamo nel cinema, come nel percorso di certi scrittori che partono da libri più diretti e spontanei alla Portnoy di Philip Roth, poi passano a temi più astratti e politici e alla fine poi ricuciono tutto. Come nella trilogia di Edipo, che un professore americano rapportava ai dischi dei Beatles post break up.
I Beatles, appunto. Hanno questo strano potere magico di funzionare ancora così: si parte dalle filastrocche, dai colori, dalle note da saggio dell’asilo di “Penny Lane”, dagli “I love you”, fino al muoversi scatenato di un bambino, di un adolescente. Si inizia a introdurre la sofferenza con «pain would lead to pleasure» ma con ritmi ancora che ti caricano ancora emotivamente in positivo come in “Help”. C’è la soggettività, il punto di vista di un narratore inaffidabile come in “Something”, i commenti sofisticati come “Revolution”, che dicono più di tanti articoli dell’epoca, che evocano la specificità delle storie e del tempo che stai vivendo, di un luogo che vedevi da piccolo. Poi ci si confronta con la fama, le rotture, con gli amori adulti, con un nucleo che si dissolve e in quel momento non si sa bene per quanto tempo. Non si sa se un giorno si riprenderanno in mano quelle frasi, quelle idee, le si trasformerà in visioni ancora più complesse su di sé.
Bob Dylan cantava «I wish I wish in vain that we could sit simply in that room again, ten thousand dollars at the drop of the hat, I d’ give it all gladly if my life could be like that». E prima che boomer significasse nostalgia (ma anche complessità: noi venti-trentenni non siamo tutti slogan e nati senza riferimenti culturali).
Dylan ha in comune con le Taylor Swift di oggi, più dei Beatles, l’attenzione e il giudizio critico da album ad album. Ogni artista, ogni scrittore che pubblica un libro diverso dai suoi soliti – o per bambini, per esempio, o per pagarsi la casa al mare – mantiene una voce. E la cancel culture di chi giurava vendetta a una chitarra elettrica fa sorridere. Per me la fase “Reputation” di Taylor Swift ha un sapore simile e per gusti personali preferisco il suo ri-sfociare nell’indie cottage-core di oggi, riflettendo poi ovviamente i mood collettivi, ma è una fase essenziale, un urlo.
Da figlia di boomer che adora ogni singola canzone anni ’60/70 come se fosse nata allora, ho sempre cercato il Bob Dylan della mia generazione, perché tutto passa e ritorna in altre forme. Ma ovviamente sono tornati i cantautori e ci sono sempre stati, tra quelli Gen X come Josh Ritter, Jason Isbell – il primo adorato da Joan Baez. E tra i miei coetanei Charlie Fink e sono tornati anche i folk singer in ere di rap, hip hop.
Anzi, proprio i figli di chi ascoltava Dylan hanno creato un neo-folk negli anni Dieci del 2000, quasi prese in giro da matrimonio hipster, come Mumford and Sons, Noah and the Whale, the National, The Lumineers, The Decemberists, oggi mainstream, e cheesy, ma belli. Tiktok e YouTube hanno riportato in auge l’opposto di quello che si crede: un giovane/una giovane con una chitarra, senza luci, make-up, senza grandi effetti speciali. La quantità di canali come le Whalen Sisters su Tiktok, per esempio (o Philip Labes). La loro “Colorado” potrebbe essere stata scritta da John Denver.
Il folk è vivo: certo, non è detto che debba essere il vostro genere preferito, dato che il rap ha tra i migliori esempi di storytelling, teatro, dialogo, costruzione narrativa della nostra era, ma non ha comunque cancellato Woody Guthrie. In America, in particolare, basta aprire lo smartphone e qualcuno canta dei fatti del giorno precedente, con qualche semplice giro di Do, come fossimo al Gaslight Cafè.
Esistono canzoni di protesta, chiede chi ha cantato “Ohio” di Crosby Stills Nash and Young? Centinaia. Nell’era Trump, c’è stata una rifioritura. Dai The Killers con “Land of the Free”, a Josh Ritter “All Some Kind of Dream”, a Fiona Apple con “Tiny Hands” a Kiki Palmer “Actually Vote” fino a – persino – Taylor Swift con “Only The Young” scritta per la campagna politica delle elezioni di midterm in Tennessee: parla di sparatorie e di una generazione spezzata dalle politiche di destra.
Gli Stati Uniti raccontano bene il passato prossimo, diceva Umberto Eco, ed è ancora così con la pandemia. Thomas Rhett o Brad Paisley hanno scritto canzoni country cercando di comprendere il razzismo e Garth Brooks con “People Loving People” ha cercato goffamente di curare il national divide. Nell’era del #MeToo forse i messaggi country che raccontano di un uomo rispettoso delle donne si sono rivelati più efficaci di tanti cartelli e tweet. “Southern Gentleman” di Luke Bryan, per esempio, è l’inno all’uomo perbene, galante, che cucina una cena per la sua donna, non violento. Trump, con i suoi fuorionda volgari sulle parti intime delle donne ne è l’antitesi. Oppure “Humble and Kind” di Tim McGraw, che invita a non mentire, non tradire e non rubare. O, di nuovo, Taylor Swift, che risponde e commenta le relazioni finite senza umiliare nessuno, ma raccontandone dettagli sfumati, quelli delle zone grigie complesse, che non sono sparite, quelli cioè di “All Too Well”: «And you call me up again just to break me like a promise / So casually cruel in the name of being honest».
È tutto e il contrario di tutto. L’era dei singoli avrebbe dovuto uccidere gli album che invece sono tornati, gli iPod avrebbero dovuto rendere la musica meno legata ai singoli artisti e hanno costruito interi archivi musicali portatili, connettendo ere diverse. Spotify va a gusti ma – anche lì – può portare alla nascita di ossessioni di nicchia come 50 anni fa, come all’ascolto da background di Starbucks.
Taylor Swift nasce come cantante adolescente country dopo il boom emo, anche quello frainteso nei suoi testi musicali, considerati superficiali, mentre rappresentavano la poesia degli anni 2000. E all’epoca stonava. Certo, il jeans strappato, l’insoddisfazione dei più grandi no-global, la lacrima, il trucco, il vittimismo, le difficoltà di accettarsi e dell’adolescenza sembrano sempre tratti più realistici. Poi, crescendo si impara che a volte i film indie hanno più cliché di quelli hollywoodiani. Ci sono capolavori e gruppi pop-rock-indie-emo che attraversavano il mondo post-11 settembre, il mondo del terrorismo, post globalizzazione, che va verso un bisogno di autenticità quasi ansiogena, ma riuscita in alcuni settori – come il cibo.
Certo è un’era che ha regalato anche le pop star costruite, i talent show, ma la ragazzina bionda con la chitarra e i riccioli e il sorriso era troppo dolce per chi voleva essere un duro, o dire cose importanti.
La tradizione femminile country in Usa è forte e tutt’altro che frivola, le Dixie Chicks hanno creato una crisi politica con un commento su Bush, e prima di loro senza tornare ai soliti miti anni ’60, ci sono una caterva di Emmylou Harris, l’inimitabile Dolly Parton, Jo Messina, Sheryl Crow, Martina McBride e mille altre.
Ma Taylor Swift piaceva alle bambine, come i primi Beatles, alle mamme. Era una ragazzina perbene, faceva sognare di balli di fine anno come nelle commedie romantiche, anche se poi capitava la frase che tradiva un’intelligenza profonda, o una battuta spiazzante. Non piaceva al pre-adolescente, anche se non c’è una ragazza americana che non abbia cantato i suoi ritornelli in macchina nei pomeriggi scolastici. E nessuno avrebbe mai immaginato una canzone come “The Last Great American Dinasty” nel 2020, che se fosse pubblicata sul New Yorker sembrerebbe una short story geniale.
Ma l’adolescenza non è solo una costruzione buona per il marketing e gli influencer? Come già raccontava “American Graffiti”, o “L’ultimo spettacolo”, o la scena con George Harrison in “Hard Day’s Night” (non c’ero quando sono usciti, ma l’impatto è rimasto), non si tratta soltanto di teen movies, teen series, e fase di stupidità e di esperienze in fieri. Sono tantissimi gli scrittori, i cantanti, i musicisti che anzi danno il massimo delle loro potenzialità intellettuali proprio all’inizio. O almeno piantano i semi. Da Goethe a Salinger.
L’adolescenza è anche una modalità creativa. Natalia Ginzburg scriveva di Cesare Pavese: «Le sue giornate erano, come quelle degli adolescenti, lunghissime, e piene di tempo: sapeva trovare spazio per studiare e per scrivere, per guadagnarsi la vita e per oziare sulle strade che amava».
Taylor Swift ha scritto furiosamente per tutta l’adolescenza riempiendo quaderni, pagine bianche del computer. Mentre Harry Potter entrava a scuola ogni anno più o meno quando ci entravo io come età, anche lei apriva la strada alle mie fasi della vita con ogni suo album.
Era costruita? Chissà. Oggi si fanno gli stessi discorsi sui Måneskin. Era genuina, come tutti gli adolescenti. I gruppi e i cantanti partono sempre dalle cover, dallo scrivere ai loro idoli (Dylan dedicò una canzone a Woody Guthrie, e Swift a Tim McGraw), dai programmi televisivi in ogni epoca, con qualche eccezione da garage e club serale. Tre quarti della musica italiana anni ’60 sono cover americane: come “Domani è un altro giorno” di Ornella Vanoni, che riprendeva la mitica cantante country Tammy Wynette con “The Wonders You Perform”, togliendo un po’ di religiosità dal testo. O i grandi cantautori come Fabrizio De Andrè e Francesco Guccini si confrontavano con Leonard Cohen, Dylan e i troubadours francesi e i dialetti, che hanno più in comune col bluegrass di una canzone dei Mountain Goats (mia nonna cantava di minatori intrappolati nelle miniere di carbone grazie alle Gemelle Nete, nell’Alta Langa come fosse l’Appalachia).
La musica, senza tirare in ballo cento filosofi o neuropsichiatri alla Oliver Sacks che l’hanno detto meglio, è irrazionale, liberatoria, agisce sul sistema nervoso. Ci divide in tipi neurologici che vanno ben oltre le lingue: c’è chi davvero reagisce di più ad alcuni toni, o note, o generi, strumenti, chi – come me, nei labirinti cerebrali – vuole storie, ama i racconti e così il rap come nel musical Hamilton o il country di Taylor Swift. Hanno accordi semplici ma parole complesse. Al tempo stesso i musical anni 2000 come “Spring Awakening” non piacciono a chi ama i suoni psichedelici dei Pink Floyd o l’elettronica, dove il testo non conta.
Taylor Swift spiegava in interviste fatte a 17 anni che il country è specificità: è quella sedia che solo tuo nonno aveva in terrazza, descritta in ogni dettaglio. È quella vicenda costruita come una short story, è quel trucco da scrittore – come appunto in “The Last Great American Dynasty” (spiega nel documentario su “Folklore” a 30 anni) – in cui riallacci i due filoni narrativi della canzone: il racconto di una socialite ricca anni ’20 amica di Dalì e dei poeti e che nell’ultimo verso viene collegata a te. Quella casa dove viveva lei, «it was bought by me» (l’ho comprata io).
Nel country si fa di solito con le storie, magari un po’ sdolcinate o magari violente. C’è il padre che faceva tardi, la madre che tornava con un occhio nero il giorno dell’indipendenza – è quello che canta Martina McBride – ma poi sono nata io. Oppure la storia di Lucille che viveva in Woodstock Kentucky, ha avuto sette figli e vedeva il bello in ogni cosa. Più le parole sono specifiche, più sono dettagliate, come sanno anche i comici stand up, i grandi scrittori, più sono universali.
«Dancing around the kitchen in the refrigerator light» in “All Too Well” è un gesto che forse abbiamo fatto tutti, anche se sembra assurdo. A me ricorda un Halloween con un uragano a ballare con degli amici sfollati, con le luci arancioni della festa.
Tornando a Taylor Swift, ci sono due fatti che molti sanno. È bionda e carina e ha avuto tante relazioni finite male, ma sublimate in modo creativo in musica. al contrario di quanto è invece successo a Diana e a Patti Boyd, che dopo i loro scandali sono state oggetto di commenti e di canzoni. Taylor Swift ha solo vissuto una versione più pop delle relazioni tipiche dei millennial, quelle liceali, universitarie (e qualche errore successivo) con la condanna eterna della solita domanda: per chi hai scritto quella canzone?
La risposta la daranno gli ultimi album, “Folklore” e “Evermore”, dove scrive canzoni su personaggi storici o inventati rivelando la verità di ogni forma di scrittura: nessun personaggio, nessun fidanzato, non un Joe Jonas, né un Harry Styles, non un Jake Gyllenghal, né un giovane Kennedy, è così essenziale: si creano collage, si trascende. «You’re so vain (you’re so vain) I bet you think this song is about you», per tornare ai classici.
E poi c’è la ragione sottostante di tutte queste riflessioni. Scooter Braun, ex manager di Justin Bieber, uno dei principali concorrenti di Taylor Swift, nel 2019 ha venduto a Big Machine i diritti delle canzoni dei primi sei album della cantante all’etichetta discografica Big Machine. La ha privata cioè della proprietà dei diritti creativi delle canzoni scritte da lei. Tutto questo ha scatenato diversi dibattiti nazionali e internazionali sulla musica, sul femminismo, sullo sguardo maschile e femminile e così via. Ma soprattutto ha spinto la cantante a ri-registrare i suoi primi album col famoso senno di poi. A 30 anni, o quasi, ha ripreso i testi scritti a 18, creando un fenomeno collettivo per i fan cresciuti con lei fatto di sostegno, analisi, saggi, scambi di idee, nuovi esperimenti creativi musicali e letterari.
C’è anche una strana differenza America/Europa, sicuramente legata alla popolarità del country, nonostante quasi tutta la musica italiana leggera sia effettivamente una forma di country inconsapevole, spesso copiata. In molti ambienti è di conseguenza più difficile non considerarla una pop star superficiale, senza la fortuna di Madonna che è stata rivalutata come icona (come il fumetto è diventato graphic novel).
Invece Taylor no, cade nel mezzo: non è Beyoncé – cioè non è divertimento puro e fuochi d’artificio – ma non è nemmeno la canzone impegnata alla Buffy Sainte-Marie e non è certo il Nobel di Dylan, ti dicono. È una via di mezzo? Forse sì, come tante cose che non arrivano in Europa dagli States, ma è puro storytelling.
A una cena, anni fa, un amico di mia madre mi aveva detto: «Il White Album dei Beatles lo puoi capire solo dai 14 anni, quindi da quest’anno puoi ascoltarlo». Mi aveva dato il permesso. Ma anche se guardiamo agli album di Taylor, la colonna sonora di molti giovani soprattutto americani, c’è un fenomeno di scoperta graduale analogo.
Il primo album “Taylor Swift”, del 2006, è semplice, infantile, country allegro. Poi arriva “Fearless” due anni dopo, e siamo in epoca “Hunger Games”: adolescenti avventurose, ironiche, che cambiano il mondo, spopola lo young adult. Nel 2010 “Speak Now”, con cui iniziano i «growing pains» delle relazioni che non sono come vorresti, della cattiveria di amici e amiche di cui ti fidi, dei rapporti che cambiano. “Red” nel 2012 è il pop che rafforza il country. Anche Taylor Swift cresce, risponde per le rime, inserisce elementi poetici, letterari, nuove città, relazioni pericolose con età diverse.
“1989”, album del 2014, porta nel titolo il suo anno di nascita. Siamo in epoca di star come Lady Gaga, che fanno un po’ da competizione amichevole. Qui emerge il filone più “dreamy” che tornerà nel folk di “Wildest Dreams” e Bryan Adams, un artista più vecchio di lei, ne farà una cover. Nel 2017 esce “Reputation”, rifiutato da alcuni suoi fan come fu la chitarra elettrica di Bob Dylan. È l’album più odiato o amato: pop. Dopodiché inizia l’era della cantautrice: “Lover” (2019), “Folklore” (2020), “Evermore” (2020).
Il primo è come “Revolver” dei Beatles: una transizione che sottolinea la soggettività, ritorna alla centralità della parola (come nel country) ma con più complessità musicale. Come “Eleanor Rigby”, il testo ha temi di campagna, l’arrangiamento molto meno. Le relazioni, intanto, sono da ventenni consumati.
“Folklore” e “Evermore” hanno dietro Jack Antonoff, il produttore più importante della nostra epoca. Ospitano artisti indie come Bon Iver e The National, presentano testi che parlano di altre persone, non di fidanzati (come già detto) né di se stessi, ma di donne che giocavano a carte con Dalì, di poeti romantici di fine ’800, che sono l’altra grande tradizione dei cantautori con la C maiuscola. Che sia “Paperback Writer” dei Beatles o “Man on the Moon” dei R.e.m su Andy Kaufman, o “Candle in the Wind” di Elton John su Marilyn/Diana.
Sono anche due album figli del lockdown. Hanno il sapore dello special Netflix di Bo Burnham, che riflette sulla quarantena da ragazzo anni ’90. Sono stati registrati nei boschi nell’Upstate New York, come fossero i Traveling Wilburys.
La crescita vera è riprendere i pensieri fatti dai 14-15 anni in poi e farli evolvere, ricontestualizzarli, cambiarli, farli propri, trasmetterli, ricostruirli. Un po’ come quando ci si rivede in una foto di qualche anno prima. Solo a noi sembra di essere completamente diversi. Tutto questo, in più, vissuto come un fenomeno collettivo su Tiktok, Instagram e gli altri social. Coinvolge tutta una generazione di persone, ormai con anelli di fidanzamento, matrimoni, e anche qualche primo figlio (o prime case perlomeno), o con relazioni da tardi 20-30enni che l’ha ascoltata nel tempo e ora è più “onesta” e sincera su questo percorso in mille messaggi.
Oggi, oggi è “Red”. Ci scriviamo tutti. I video su Tiktok fanno vedere come le stesse canzoni venivano percepite a 16 anni e a 28, a 15 e a 30. Le stesse parole assumono altre forme, ma le intenzioni sono quelle, e il country è sempre stato storie di crescita, come “Peyton Place “di Grace Metalious, il libro sexy (non la soap opera), coming of age, in cui Allison, adolescente insicura, cresce in una small town, vive tutte le tappe e diventa una giornalista. Cammina per i boschi nell’estate indiana circondata dai colori, si sarebbe fatta le stesse foto di Taylor Swift.
A.A. Bondy canta in “American Hearts” di un’unione tra fratelli, di un passato americano complesso. Alan Jackson, tutt’altro che di sinistra, canta il dolore dell’11 settembre in “Where Were You When The World Stopped Turning?” con sfumature umane di umanità che politici come Steve Bannon si sognerebbero.
Taylor come Joan Baez, come Patti Smith, non ha neanche bisogno di hashtag. Un amico scrive su Fb che essere un millennial significa, per la prima volta, capire entrambe le parti di “Father and Son” di Cat Stevens. Taylor aggiunge:
«I think I’ve seen this film before
And I didn’t like the ending
I’m not your problem anymore
So who am I offending now»
Ritorna “Red”. Ritorna con un film di 12 minuti, proiettato in anteprima al Lincoln Center, su una delle sue canzoni più narrative: “All Too Well”, che insegna appunto i dettagli, la scrittura, i punti di vista. Così faceva anche Kenny Rogers, e Randy Travis che raccontava di «a farmer and a teacher a hooker and a preacher» su un bus per il Messico, e faceva indovinelli. “Lover” non è così diversa da “Amore che vieni, amore che vai”.
Ritorna “Red” nei vestiti in giro per le città americane, nei discorsi. Quando George Harrison scrisse “Brainwashed”, il suo ultimo album, uscito nel 2001, fu il figlio Dhani che dovette continuarlo e concluderlo. Nelle sue canzoni c’erano intuizioni prescienti sull’era social; erano più mantra e poesia che storytelling, ma ci sono liste, frasi attualissime e l’idea che più cresci e più generazioni accogli dentro di te si è sempre almeno due o tre cose nello stesso momento. Ti rivedi in un padre o in un figlio. Piangi così per le canzoni sulla madre di Taylor Swift scritta dopo la scoperta del cancro. Sai che non ha più 17 anni.
I linguaggi condivisi sono quelli creati da artisti che sanno farti crescere assieme a loro, come quando a scuola inizi e finisci con gli stessi compagni. Prima c’è l’imbarazzo, poi difendi il fatto che si tratta di una cantautrice e poi applichi le sue regole di scrittura, riscopri il folk attorno a un falò, o ascolti “Lover” su Spotify, capisci che ogni cliché generazionale è demenziale e che ci sono serie sui Kennedy e canzoni scritte da ventenni migliori di alcune scritte da sessantenni, che la cultura non appartiene a un frame temporale, che si è inattuali, tutti, che la short story è un’arte, così come il personal narrative essay, sia high-brow che low brow, in cui l’America eccelle, e che c’è complessità, cultura, non è tutto su Twitter, o se lo è va oltre il sarcasmo, la pseudo-modestia, la pseudo-depressione: lo è nella sincerità. È essere sospesi tra le età a 20, 30, 50 anni. Non c’è niente di nuovo.
«Time won’t fly, it’s like I’m paralyzed by it
I’d like to be my old self again
But I’m still trying to find it»
I Byrds e Dylan cantavano cose simili: «I’m younger than that now».
Billy Joel – che potrebbe essere mio padre – ha detto che Taylor Swift è come i Beatles di adesso. Forse non lo credo nemmeno io: ho gusti troppo influenzati dai baby-boomer e amo tutto, dal rap, all’hip-hop, alla canzone in dialetto genovese, e tutti e i quattro Beatles hanno affermato, con modestia, che gli è sembrato di catturare l’energia di un momento e ributtarla nel mondo. Forse quello è irripetibile oggi.
Taylor è l’epica e l’epoca dei millennial, forse un po’ immatura in alcune sue espressioni semi-adulte, fragile, emotiva su tante cose personali, ansiosa, ma giocosa, con un racconto di sé, una propria estetica narrativa. È il proprio racconto personale, quello che sarebbe piaciuto anche a una Jane Austen, se avesse avuto Twitter, ma anche quello dei tempi storici attorno a noi, non meno importante degli ormai insostituibili anni ’60.
Abbiamo visto crollare la nostra infanzia con le Torri gemelle, abbiamo visto le news e la comunicazione implodere e esplodere, abbiamo visto che cos’è oggi la reputation (che poi non era meglio negli anni ’50…in un piccolo paese) abbiamo partecipato a marce con cartelli ironici, abbiamo vissuto di sogni e famiglie come in “The Best Day”. Alti e bassi.
Abbiamo comprato quegli album in diretta, ascoltati come album e non come single: anche “Folklore”, dopo il lockdown, canzone per canzone, seguendo la struttura, la storia, non ci lamentiamo sempre ma sappiamo anche noi raccontare storie e personaggi. Ormai le serie, il cinema, la tv, la musica sono nelle nostre mani.
E iniziamo a provare la nostalgia. Per gli anni ’90, anni 2000. Ma esiste, esiste nella politica che ci ha formato, nel giornalismo, nei programmi, nelle sfumature per le quali per ogni estremismo che ci viene imposto ci sono mille storie più divertenti, auto-ironiche, esperimenti su Youtube, Tiktok.
Nelle canzoni non ci sono discorsi sui pronomi, gli “you” sono sempre stati gli “you” di chi volevi da sempre, si applicano a genitori, fidanzati, amici. Nelle canzoni di Taylor Swift c’è una donna-ragazza buffa, molto diversa da una pop star, ormai quasi più simile davvero a una folk singer spettinata, anche sei se con qualche in abito a lustrini.
E così arriva e ritorna “Red”. E una generazione ricorda e cresce, ricorda e cresce. Quella è l’evoluzione. Chi analizza le generazioni attuali, senza viverle, ha smesso di evolvere. Crescere è l’indipendenza da Scooter Braun e da chi eri prima: perché ossessionarsi sempre su cosa ti ha formato? Chi sei? Quanto sai? Si cresce solo cambiando, come insegnava anche Bob Dylan, cambiando anche nome, cultura, vita. E gli album di un’artista che hai visto crescere oggi ti emozionano e pulsano come il colore rosso.
«I was reminiscing just the other day
While having coffee all alone, and Lord, it took me away
Back to a first-glance feeling on New York time
Back when you fit in my poems like a perfect rhyme
Took off faster than a green light, go
Hey, you skip the conversation when you already know
I left a note on the door with a joke we’d made
And that was the first day»