In questi giorni, sull’onda dell’inchiesta sulla fondazione Open, e della consueta congerie di intercettazioni, e-mail, sms e whatsapp quasi sempre penalmente irrilevanti di cui puntualmente si riempiono giornali e televisioni, si torna a parlare molto di politica e giustizia. Se ne torna a parlare in questi giorni, come ogni giorno da circa ventotto anni, a dire il vero, perlomeno quando non si parla di legge elettorale o di riforme istituzionali. In pratica, siamo costantemente immersi in una sorta di perenne 1993 – da un’idea di Marco Travaglio – dal quale sembra proprio che non riusciamo a uscire, prigionieri di un’interminabile docufiction politico-giudiziaria in trentamila puntate, tutte uguali.
Mi perdonerete quindi se stavolta proprio non mi va di tornare sulla questione, per spiegare ancora una volta, oggi a proposito di Matteo Renzi e del caso Open come ieri a proposito di Massimo D’Alema, Piero Fassino e del caso Unipol (ma ogni lettore aggiunga pure i suoi esempi preferiti), che in Italia da troppi anni la lotta per il potere ha assunto la forma della caccia alla volpe: uno sport che si gioca solo in cento contro uno, sui giornali e in tv, senza nemmeno quel minimo di regole che persino la caccia alla volpe prevede (tanto meno da quando a giornali e tv si sono aggiunti anche i social network).
Stanco come sono di ascoltare e di ripetere io per primo sempre le stesse cose, oggi vorrei dunque occuparmi di cinema. Perché, con mia grande sorpresa, molte delle cose che penso a proposito della docufiction di cui sopra le ha dette, certo senza rendersene conto (cioè senza rendersi conto del profondo significato che le sue parole assumevano, al di là della notizia di cronaca che ne costituiva lo spunto), pensate un po’, Antonio Ingroia. Per la precisione: Antonio Ingroia, intervistato ieri dal Corriere della Sera nelle inedite vesti di avvocato di Gina Lollobrigida.
Proprio lui. Il già celebre pubblico ministero impegnato tra l’altro nel processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-Mafia (a proposito di docufiction), processo da lui lasciato nel 2012 per guidare la lotta al narcotraffico in Guatemala per conto dell’Onu (a proposito di fiction), salvo lasciare anche quell’incarico appena due mesi dopo, per candidarsi alle elezioni con un partito nuovo di zecca, fondato per l’occasione: Rivoluzione civile. Come ricorderete, è finita anche peggio del processo Trattativa: 2,25 per cento. Ma lui, non lasciandosi abbattere dal magro risultato della formazione con cui si era di fatto candidato a presidente del Consiglio, ci riprova alle politiche del 2018 con la Lista del Popolo, totalizzando uno squillante 0,02 per cento (nessun refuso: zero virgola zero due), e due anni dopo, abbassando leggermente il tiro, con la candidatura a sindaco di Campobello di Mazara, ovviamente senza essere eletto neanche lì.
A dire la verità, la storia della sua controversa uscita dalla magistratura e delle sue successive occupazioni, a cominciare dagli incarichi assai ben remunerati ottenuti dalla Regione Sicilia (e relative vicende giudiziarie), sarebbe molto più lunga, ma credo di aver rinfrescato la memoria del lettore con i dati essenziali della sua biografia. Del resto, stiamo parlando di una delle figure più note e più intervistate dalla stampa e dalla televisione italiana, che in questi anni non ha fatto mancare il suo autorevole parere su tutte le più delicate, controverse e scottanti questioni politiche e giudiziarie: persino negli scarsi due mesi di lavoro per la Comisión Internacional contra la Impunidad riuscì a ottenere una surreale rubrica sul Fatto quotidiano dal titolo «Diario dal Guatemala».
Ebbene, come mai «la regina del cinema italiano», domanda il giornalista del Corriere della Sera che lo intervista, Felice Cavallaro, ha scelto proprio lui, Ingroia, come avvocato? «Nasce tutto da Netflix», risponde l’ex magistrato, riferendosi alla docufiction sul caso di Pino Maniaci in cui Ingroia ha effettivamente recitato nel ruolo di se stesso (piccola avvertenza per il lettore distratto: qui il termine “docufiction”, come il fatto che Ingroia recitasse nel ruolo di se stesso, e come tutto il resto, non sono metafore, immagini, allegorie di un bel niente, ma puri dati di fatto, da intendersi in senso letterale).
Gina Lollobrigida si sente vittima di un’ingiustizia e accusa il figlio – da ultimo anche in un video in cui si rivolge agli italiani guardando direttamente in camera, seduta accanto al suo nuovo avvocato – di volerle togliere la sua libertà e anche i suoi soldi. Sta di fatto che finora i giudici hanno dato ragione al figlio. E così l’attrice, che ha apprezzato la serie tv e soprattutto, dice Ingroia, la sua grinta («Gli avvocati hanno bisogno di mostrare pure un necessario aspetto scenico, dall’eloquio alla presenza»), si è rivolta all’ex pm, nonché collega attore, per passare al contrattacco. Con una scelta che forse non depone a favore della sua lucidità.
«Cinema o giustizia?», domanda a questo punto l’intervistatore. «L’uno e l’altro. Si integrano le mie passioni di sempre», risponde Ingroia. E se non vi sembra una confessione questa, davvero non saprei cosa aggiungere.