Dalla due giorni milanese di Linkiesta Festival nel prestigioso Teatro Franco Parenti diretto da anni da Andrée Ruth Shammah è molto difficile dar conto di tutto, data la ricchezza delle occasioni di discussione, e dunque questo che leggete non è un resoconto, ma il tentativo di estrarre qualche seme che lì è stato gettato sperando che nessuno lo calpesti ma anzi lo coltivi.
Il riformismo è un punto estremamente delicato. Come se fosse un carretto impantanato in una fanghiglia che non gli consente di andare avanti ma nemmeno indietro. Emma Bonino a un certo punto ha osservato che siamo allo stesso punto di un anno fa, ed è vero, nel senso che da allora la formazione riformista che tanti evocano e invocano non ha fatto passi avanti, anzi, per certi versi pare che l’incomunicabilità avvolga sempre più un’area che non riesce a darsi un programma e gruppi dirigenti comuni.
Eppure Azione, il partito di Carlo Calenda, a Roma ha fatto il 20 per cento, Marco Bentivogli lavora indefessamente a elaborare contenuti concreti e innovativi con Base Italia, le battaglie sui diritti civili di Marco Cappato sono andate avanti, persino dentro Forza Italia (al Festival c’è stato anche un ottimo intervento di Andrea Cangini) c’è un dibattito nuovo, tutta una serie di intellettuali liberal-democratici scrive quasi ovunque. Soprattutto, a Palazzo Chigi c’è Mario Draghi, l’uomo che il mondo ci invidia e che è riuscito a creare – qui ci vuole! – un nuovo miracolo italiano: e non renderne merito a Matteo Renzi è intellettualmente disonesto.
Là fuori c’è Joe Biden, c’è Olaf Scholz, naturalmente c’è quell’Emmanuel Macron sulle cui spalle a questo punto ricadono quasi tutte le speranze di cambiamento in vista delle elezioni del 2022. Il sovranismo perde colpi nel mondo occidentale, da noi il populismo grillino è costretto a indossare più o meno credibilmente altre maschere. E allora, cosa c’è che non va? Qual è questo male oscuro che paralizza il riformismo italiano?
A Milano per rispondere a questa domanda non si è fatta autocoscienza e tantomeno polemica tra i vari esponenti di quest’area potenzialmente vasta ma concretamente molto minoritaria (attenzione: minoritaria nella testa prima ancora che nei numeri). Beppe Sala e Carlo Calenda, nel loro dialogo, tra l’altro hanno discusso della questione del M5s, con il sindaco di Milano che si è accostato al tema con lucidità e pragmatismo, comprendendo che i grillini non solo sono cambiati ma sono politicamente molto meno rilevanti di cinque, o anche di tre anni fa. Non è un problema dirimente, insomma.
Mentre per Calenda, si sa, la questione della lotta, fino alla distruzione, del partito di Giuseppe Conte è un obbligo culturale prima ancora che politico (di qui la duplice scelta di uscire prima dal Pd e la settimana scorsa dal gruppo socialista europeo che va allargandosi ai grillini di Bruxelles). È un punto politico che prima o poi tutti insieme dovrebbero affrontare. Non in modo politicista, come fa il Pd, preoccupato solo di aggiungere ciccia alle sue truppe, ma come problema di fondo: insomma, è stata vinta la battaglia contro questa faccia del bipopulismo, e dunque si può passare ad altro, oppure questi tarli della democrazia tuttora sono attivi?
Ma al di là del nodo-M5s, la spinta a costruire sui contenuti un soggetto nuovo si è espressa nelle parole di Bentivogli: «Oggi c’è l’occasione di una convergenza seria, bisogna mitigare le egolatrie e costruire una grande squadra che prenda in mano il destino del Paese». Mentre Cangini non vuole morire sovranista ma, anche se non lo ha detto così espressamente, per il momento vede la situazione bloccata, con tutti i rischi per la qualità della democrazia che questo comporta. Si aprirà una battaglia politica nella destra? Oppure prima o poi gli antisovranisti guarderanno altrove?
Il problema politico del Pd
Giorgio Gori ha riproposto un tema che negli ultimi mesi è stato un po’ messo da parte: la battaglia liberal-socialista dentro il Partito di Enrico Letta. Che non è (solo) ideologica, nel senso buono del termine, ma una vera battaglia politica per affermare una linea contro un’altra linea che oggi è largamente egemone. Il punto chiave posto da Gori è sembrato questo: occorre stabilire una «gerarchia delle alleanze», nella quale può anche esservi spazio per i grillini diventati europeisti ma che veda al primo posto l’intesa politico-programmatica con le forze riformiste. Non è una questione di lana caprina. È un dire a Enrico Letta che sbaglia abbracciando Pier Luigi Bersani e Conte in una grottesca imitazione di esperienze di Fronte popolare (diciamo noi). L’orizzonte dei riformisti è il “draghismo” – dice Gori, mentre Tommaso Nannicini su questo è parso più articolato e problematico – sia come contenuti programmatici sia come asse politico, con qui un’ovvia opzione per la permanenza di Draghi a palazzo Chigi fino al 2023 e oltre. Osserviamo che mentre la linea di Letta è discutibile ma abbastanza chiara (questo “Nuovo Ulivetto” Pd-LeU-M5s), non è altrettanto chiaro, a parte Gori, cosa vogliano i cosiddetti ex renziani di Base riformista, una parte dei quali sembra entrata nell’orbita del segretario.
Crisi della democrazia e proporzionale
Ad ascoltare le discussioni sull’esigenza del proporzionale, non solo come sistema più efficace per garantire la ripresa di una dinamica politico-parlamentare da tempo narcotizzata anche a causa del finto maggioritario in vigore, ma anche come strumento per rivitalizzare il rapporto tra società e partiti politici, parrebbe tutto molto semplice. Anche i maggioritaristi-bipolaristi di un tempo (e il “giro” de Linkiesta, dal direttore Christian Rocca a Sergio Scalpelli a Marco Taradash ne è un esempio) sono ormai persuasi che altra via per salvare la nostra democrazia non ci sia. Sul palco del Parenti, Matteo Orfini e Francesco Cundari, da sempre sostenitori del sistema tedesco, e il “neofita” Taradash, hanno spiegato nel merito le ragioni. Ma in Parlamento chi la farà questa battaglia, ammesso che qualcuno voglia lavorare a una nuova legge elettorale? La destra è muta, il Pd non si sa bene cosa voglia. E così il rischio è che resti il Rosatellum per eleggere un Parlamento falcidiato dal famigerato referendum grillino che è stato un esempio lampante di coincidenza tra populismo e reazione. Oltre a essere una promessa mancata di Letta, che all’epoca associò il Sì al referendum sul taglio dei parlamentari a una riforma in senso proporzionale. Chi l’ha vista?
Due notizie da Renzi
Matteo Renzi doveva essere al Parenti di persona ma è intervenuto da remoto: «Ho fatto una confusione di agenda», ha spiegato. Intervistato da Rocca, Scalpelli e Simonetta Sciandivasci, il leader di Italia viva ha detto tra le altre due cose interessanti. Una frase importante Renzi l’ha buttata là: «Cerchiamo quello che unisce per fare qualcosa di più grande, io non sono un problema e non mi voglio intestare niente, col massimo di umiltà». Siccome stava rispondendo a una domanda sui rapporti con Carlo Calenda, parole così “gentili” hanno fatto sobbalzare Rocca: «Questa è una notizia».
Se è davvero una notizia quella della disponibilità a discutere per fare «qualcosa di più grande» lo vedremo già forse in questo fine settimana in una Leopolda di cui poco si sa. Sono in molti a sperare ancora in una futuribile reunion tra tutti i protagonisti, anche se l’ipotesi appare poco concreta, almeno per ora. L’altra notazione importante che Renzi ha ripetuto – ne aveva accennato durante il wrestling con Lilli Gruber, Marco Travaglio e Massimo Giannini dell’altra sera – è che secondo lui è possibile che si vada a votare nel 2022: in effetti si tratta di un esito a cui pervengono molti ragionamenti che si fanno in questi giorni, tipo quello secondo cui Draghi, ove non fosse eletto al Quirinale, si dimetterebbe, constatando che la sua maggioranza di governo non lo avrebbe appoggiato; oppure quell’altro discorso secondo cui un presidente eletto solo da mezzo Parlamento manderebbe in fibrillazione la stessa maggioranza larga di Draghi. Ma Renzi ha disegnato un’ulteriore ipotesi. Per lui le urne si potrebbero avvicinare perché la destra le vuole; poi perché Letta si sbarazzerebbe di gruppi parlamentari non “suoi”; e infine perché a Conte «non gli regge la pompa» fino al 2023. Ecco perché, secondo il senatore fiorentino, il ricorso a elezioni anticipate (con tanti saluti agli interessi del Paese) non è affatto da escludere.
La strada di Italia viva
A un certo punto del dibattito, Sergio Scalpelli ha alluso all’ipotesi che, a cominciare dalla partita del Quirinale, Renzi cominci a guardare a destra, e lui ha fatto no no con l’indice della mano. L’ex segretario del Pd ha riproposto il “metodo” che, soprattutto grazie a lui, portò alla elezione di Sergio Mattarella: «Serve la politica, la capacità piano piano di trovare un nome su cui ci sia una convergenza larga». Una risposta a quelli che si sono messi in testa che prima di tutto bisogna annichilire la truppa renziana con tutti i mezzi a disposizione. In questo senso vengono letti da Italia viva i furiosi attacchi del Fatto e non solo contro l’ex presidente del Consiglio e le voci – «spinnate dal Pd», ha detto Renzi, cioè insufflate alle orecchie dei giornali dal Nazareno – di abbandoni di diversi parlamentari di Italia viva per altri lidi. Da quello che ha detto a Milano pare però di poter escludere l’ipotesi di una convergenza tra la destra e Renzi su un nome per il Quirinale. Dopodiché il leader di Italia Viva dovrà decidere se e come ridefinire il suo ruolo nel campo del centrosinistra, o se invece intende costruire una sua strada nuova.