Tra le moltissime spedizioni alla scoperta della città che compii con gli storici amici, una, che paradossalmente avrei guidato io, ci condusse alla scoperta della New York sovietica, sovietica e non russa, perché snobbammo la Russian Tea Room di Manhattan e i luoghi della Russia zarista ricca e sofisticata per puntare su Brighton Beach, il quartiere di Brooklyn dove si era stanziata l’emigrazione russo-sovietico-ebraica non esattamente benestante, che era anche noto col nomignolo di Little Odessa.
Ci arrivammo in metropolitana e, immediatamente, appena scesi dal viadotto sulla Brighton Beach Avenue, ci rendemmo conto di quanto lontana fosse Manhattan, e non soltanto geograficamente.
Nessuno parlava inglese, le insegne erano quasi tutte in cirillico, l’aspetto delle persone era quello che avevo conosciuto nei miei soggiorni in Urss. Ma non solo. Ciò che più colpì me, e che condivisi con i miei amici italiani, era il fatto che l’ambiente e l’atmosfera che gli emigranti avevano ricostruito in quel quartiere di New York fosse una piccola Unione Sovietica in miniatura. Pur avendo lasciato quella patria matrigna, tra mille vessazioni e difficoltà, una volta raggiunta una meta alternativa, il modello di mondo che avevano ricreato era plasmato proprio sull’universo a cui avevano voltato le spalle con sdegno e astio. A testimoniare che l’idea di “casa”, di confidenza, di “proprio e conosciuto”, di rassicurante è indipendente dall’ideologia politica e da ciò che la rappresenta, a dispetto dell’iconoclastia che ha caratterizzato tutti i grandi momenti rivoluzionari.
Nelle vetrine dei negozi erano state ricavate le stesse finestrelle attraverso le quali, sulla prospettiva Nevskij a Leningrado o sulla via Gor’kij di Mosca, le commesse operavano le vendite nelle giornate più gelide.
L’atteggiamento scorbutico e brusco delle stesse era assolutamente identico a quello delle loro colleghe rimaste in patria. All’interno del ristorante dove pranzammo si assisteva agli stessi andirivieni di marca sovietica di giovanotti non meglio identificati che entravano furtivi, stringevano la mano a portiere e camerieri, depositavano al guardaroba chissà quali pacchetti, ne ritiravano chissà quali altri e, sempre tra grandi e frettolose strette di mano, uscivano. La nostra presenza suscitò anche in quella sede qualche curiosità: io parlavo russo ma era chiaro, sia dall’aspetto sia dalla pronuncia, che sovietico non ero. Come si spiegava tutto ciò?
Mi rispondevano, ovviamente, in russo ma l’accoglienza non fu né calorosa né cordiale. Il sospetto, per chi come loro aveva vissuto sotto un costante controllo e aveva lasciato un paese come l’Urss nelle condizioni che sappiamo, non sarebbe mai venuto meno.
Più neutra fu la visita alla libreria Černoe more (Mar Nero), la comunità ucraina si stava spostando dal Lower East Side e, per motivi economici dovuti alla gentrificazione in corso a Manhattan, cercava asilo in zone meno dispendiose.
Estremamente gradevole e rilassante fu la passeggiata lungo il boardwalk che portava al luna park di Coney Island. Moltissime coppie di anziani, piacevolmente spaparanzate sulle panchine al sole, bambini che giocavano, un idillio di provincia senza tensioni né pericoli. Una sorta di non-luogo dove, a prescindere da ogni realtà effettuale, ci si poteva abbandonare, al ricordo, al vuoto mentale, a eventuali pensieri legati alla contingenza, al passato ma senza che strazio o angoscia prendessero il sopravvento. Simbolo del complesso legame ancestrale con la terra d’origine, pur rifiutata e abbandonata, ma d’istinto ricreata e rivisitata, può essere una zuppa, la soljanka.
Classica minestra sovietica, prima ancora che russa, che ritorna prepotentemente nelle varie sedi dell’emigrazione e che può essere preparata a base di carni, pesce o funghi. In famiglia spesso la si cucina sfruttando gli avanzi di un pasto importante o raccogliendo resti combinati creativamente.
Oltre che nell’ex Unione Sovietica questa minestra è diventata molto popolare anche a Berlino e nel territorio della Ddr, portata dai soldati dell’Armata Rossa durante la Seconda guerra mondiale ed elaborata nei decenni successivi fino a diventare piatto di culto tedesco orientale. Nelle varianti russo-ebraiche, per ovvi motivi, le carni suine sono sostituite con alternative “non impure”.
da “Eggs Benedict a Manhattan. Ricette metropolitane di un professore poco ordinario”, di Gian Piero Piretto, Cortina editore, 2021, pagine 248, euro 19