Capita che, nel giro di un paio di giorni, viaggiando per lavoro, due cartelli di ristoranti più o meno nella stessa zona attirino la nostra attenzione. Non entriamo nel merito della bontà dell’offerta, pertanto, non li nomineremo perché del primo non sappiamo nulla, del secondo, invece, ne conosciamo e apprezziamo la cucina e, come noi, tanti clienti che lo ritengono, a ragion veduta, un buon ristorante noto per un’ottima pizza preparata con farine di qualità, ricette gustose e ricercate, ma anche per un menu ricco di piatti semplici e buoni, senza fronzoli.
Ciò che ci interessa è l’analisi del messaggio che esprimono le due insegne: la prima con le parole “Food Experience” stampate sotto il nome del locale, la seconda con le frasi “pizza gourmet” e “cucina di pensiero”.
Sulla prima vien voglia di evitare ogni commento, perché il fatto che mangiare sia un’esperienza è abbastanza scontato, ma scriverlo in inglese fa più effetto; soprattutto, perché il rischio che sottolinearlo possa apparire offensivo per coloro che non sempre riescono a mangiare tutti i giorni è alto. Sulla seconda, saltando a piè pari la ormai desueta e noiosa definizione di “gourmet” affibbiata alla pizza, aggettivo che nemmeno noti pizzaioli nazionali utilizzano più, visto che prediligono definire se stessi e il proprio prodotto con maggiore semplicità, veniamo a quella frase che ci ha fatto riflettere: “cucina di pensiero”.
Certo, l’esegesi della frase è scontata, si vuole trasmettere al lettore che qui c’è un modo di cucinare che, prima di agire meccanicamente nella preparazione di una ricetta, fa un approfondito esercizio di pensiero, di studio. Nulla di male penserete, sì, nulla di male, ma…
Come siamo arrivati a far sentire un bravo imprenditore, il cui successo è certificato dal numero di clienti che ogni giorno scelgono il suo locale, clienti contenti e soddisfatti per una cucina riconoscibile, rassicurante, quasi obbligato a individuare una formula concettuale che più che alla cucina attiene alla filosofia? Perché si sente la necessità di aggiungere, a quella che già è riconosciuta come una buona cucina, un commento superfluo che al cliente dirà poco?
In particolare un locale che ha clienti abituali e clienti di passaggio, visto che si trova su di una strada frequentata, ai primi non deve dire nulla di più di quanto già sanno, anzi, probabilmente costoro saranno un po’ confusi da questo messaggio e si chiederanno, visto che conoscono bene i piatti che mangiano, cosa possa significare quel “pensiero”. Ai secondi, invece, una siffatta affermazione potrebbe addirittura suggerire di passare oltre, infatti, se uno è un appassionato o un addetto ai lavori, difficilmente si muove a caso quando cerca un locale che possa offrirgli qualcosa di particolare, studia il luogo, sceglie in base a recensioni e suggerimenti di chi si fida, non si ferma a caso in un ristorante che gli comunica che la sua è una cucina di pensiero.
La considerazione, che emerge spontanea, nel constatare questa curiosa esigenza di segnalare, con una frase, una tale modalità di offerta, è che, forse, l’esagerazione, vissuta in questi ultimi anni, nel mondo della ristorazione, produce effetti surreali.
Proviamo a immaginarci catapultati in un passato nemmeno tanto lontano, stiamo viaggiando, vogliamo mangiare qualcosa, una pizza è sicuramente l’offerta più ambita e più comoda per una sosta seduti al tavolo di un ristorante. Vediamo quelle insegne e ci domandiamo cosa potrebbero significare. Saremmo incuriositi o, più facilmente, passeremmo oltre? Forse la seconda opzione sarebbe stata quella scelta allora e forse lo sarebbe anche oggi.
Eventi durante i quali, anziché condividere ricette, si discute di massimi sistemi, programmi televisivi a ogni ora del giorno in cui la cucina diventa (in)sana competizione, hanno fatto il loro tempo, oggi la domanda di consumatori e telespettatori è di tornare alle cose semplici. Forse un modo nuovo (o antico) di raccontare il cibo c’è… senza tanti pensieri.