Quando, il 27 ottobre scorso, il Ddl Zan è stato affossato al Senato da quella che in gergo si chiama tagliola, Milano ha risposto portando, poco più di 24 ore dopo, quasi 10.000 persone a manifestare all’Arco della Pace. La città è sicuramente una realtà dove i diritti della comunità LGBTQ+ sono tutelati più che altrove. Ma possiamo veramente definire Milano una città arcobaleno?
«La risposta purtroppo è no» esordisce Michele Albiani, consigliere comunale eletto nella seconda amministrazione Sala, fresco di nomina a presidente della commissione sicurezza del Comune di Milano e da 6 anni responsabile delle politiche LGBTq+ del PD di Milano. «Ci sono realtà, come il quartiere di Porta Venezia, dove la comunità riesce a poter vivere liberamente, a livello di locali o negozi in cui ci si identifica. Ma anche Nolo, con locali come il No Lo So in via Varanini, è una zona di comfort per la comunità. Usciti di lì, in tema di sicurezza, è po’ un Far West. Da questo punto di vista a Milano c’è ancora tanto da lavorare: nella stessa Porta Venezia, oltre alla questione della convivenza con i residenti, da un anno a questa parte, c’è stata un’escalation di violenza e rapine ai danni della comunità LGBTQ+».
Si tratta di violenze mirate? «Si è verificata una situazione per cui sono arrivati, in quello che storicamente è il Rainbow district di Milano, persone che erano solite frequentare altri luoghi: vere e proprie bande che arrivano via Padova e affini che hanno portato una criminalità violenta, che qui non c’è mai stata. Adesso per la nostra comunità lo scippo sta diventando un appuntamento fisso, quando va bene, perché si è arrivati anche a botte e bottigliate. Molto spesso accade che lo scontro parta con un’aggressione a ragazze, che vengono palpeggiate o importunate, qualcuno della comunità allora si mette in mezzo e si arriva alla violenza più bieca, si parla di volti sfregiati. È un grosso problema in generale, ma ancora di più perché storicamente questo è il quartiere che meglio ha accolto la comunità LGBTQ+, che qui ha trovato la sua comfort zone, è una zona che accetta la diversità in tutte le sue espressioni, anche quelle più creative a livello di look, che in altre zone della città potrebbero portare a dei problemi. Chi manifesta la propria identità Queer in modo appariscente in quartieri come Isola, o sui Navigli, purtroppo rischia ancora di essere vittima di aggressione: verbale o peggio».
Cosa può fare la città per fermare questa escalation di violenza? «Adesso, dopo l’affossamento del Ddl Zan, il Comune deve fare un passo in più, anzi, più di uno: sia a livello di sicurezza, ma anche di cultura e inclusione. Certo è importante che la stazione della metropolitana di Porta Venezia sia decorata con i colori della bandiera arcobaleno, ma è già da tempo che si discute di portare avanti progetti artistici che possano essere legati al movimento, sarebbe bello che non rimanesse solo un’idea. La richiesta principale del movimento durante la campagna elettorale, poi, è stata quella di un grande centro culturale LGBTQ+ come ce ne sono in tante altre città del mondo, o anche italiane: sto pensando al Cassero di Bologna, una struttura che il Comune ha dato in gestione alla cordata delle associazioni».
Da un punto di vista culturale però la scena milanese è storicamente inclusiva «Certamente: Milano è la casa, da quarantanni, del Mix Festival, la rassegna dedicata alla cinematografia gay, lesbico, queer e trans. Ma ci sono anche realtà, come il Milano Checkpoint, attive dal punto di vista dello screening e della prevenzione dell’HIV. Quello su cui c’è ancora da lavorare riguarda fondamentalmente tre ambiti: sicurezza, cultura di informazione e di inclusione e spazi di aggregazione (che oggi si sviluppano principalmente intorno ai locali, ma semplicemente perché non c’è alternativa).
Un altro grande buco è la questione dei figli delle famiglie arcobaleno, ce ne sono tantissime i cui bambini e bambine non si vedono riconosciuti gli stessi diritti di tutti gli altri. Il problema della comunità LGBTQ+ non è infatti solo quello della persona che passa accanto e insulta, ma è una situazione di discriminazione sistemica, che investe anche ambiti come casa, istruzione e lavoro. Milano, più di altre zone d’Italia, è più accogliente per la comunità: spesso chi fa parte del movimento LGBTQ+ sono milanesi di prima generazione, magari perché fuggiti qui da altre regioni dove non c’è accettazione. Diciamo che qui, con l’impegno, si ha l’opportunità di diventare qualunque si voglia, e si è sicuramente più protetti da tutta una serie di situazioni discriminanti».
«Milano d’altro canto è una delle pochissime realtà che ha eletto tra i suoi consiglieri delle persone out» fa eco ad Albiani Francesca Vecchioni, presidente di Diversity Lab, organizzazione no profit impegnata nel diffondere la cultura dell’inclusione attraverso comunicazione, ricerca, monitoraggio, formazione, consulenza e advocacy. «Questa è una cosa fondamentale, perché rappresenta bene l’ambiente che c’è nella politica cittadina, dove si è liberi di potersi presentare e essere eletti. Purtroppo questa dovrebbe essere la normalità, e non un merito di una città piuttosto che un’altra».
Una cosa è la rappresentanza politica e altro è quello che succede poi nella società civile «Milano ha fatto un grandissimo lavoro, sia dal punto di vista della questione di genere, che della comunità LGBTQ+: questa città ha nel suo Dna il bisogno e la necessità del diritto a esprimere stessi. Ripercorrendo la storia della città Milano ha rappresentato il senso civile anche durante la resistenza e, oggi, continua a combattere tutti i giorni per cercare di mettere insieme tanti mondi, tante realtà differenti che si intrecciano e intersecano: è la città più mitteleuropea che abbiamo in Italia.
La responsabilità che Milano si sente addosso, per questioni che hanno a che fare principalmente con il sistema produttivo, in qualche modo la costringe in maniera positiva a cercare di essere d’esempio rispetto ad alcuni temi come l’innovazione, il mondo del lavoro e, conseguentemente, l’inclusività. In un’ottica di equità, ma anche di produttività, ognuno di noi deve essere messo in grado di mettere in gioco il proprio talento e questo valore non può essere vincolato da caratteristiche che niente hanno a che fare con la competenza, come il genere o l’orientamento sessuale».
A Milano c’è quindi meno discriminazione che altrove? «Noi come Diversity Lab lavoriamo a stretto contatto con aziende e organizzazioni con l’obiettivo di attivare un cambiamento culturale che porti all’inclusione e abbiamo notato come sia cambiata la concezione riguardo a questo aspetto. Fino a qualche tempo fa si consideravano le politiche di inclusione come qualcosa “da fare”, adesso creare un contesto in cui tutti possano esprimere i propri talenti non è più percepito come un costo, o un elemento solo etico, ma come una ricchezza, anche economica, e un valore. A livello economico e produttivo se una società si priva di un’alta percentuale della popolazione perché la discrimina, si priva anche di un’alta percentuale di talenti. Siamo noi che disegniamo il mondo: il nostro compito, come società civile, è quello di disegnarlo in modo che le persone non debbano limitare se stesse. Il mondo e le nostre città sono ancora progettate prevalentemente per gli uomini: il punto di arrivo è quello di pensare la città sul modello di riferimento più ampio possibile».