«È oggettivamente impossibile uscire subito dal gas». E «la ricerca e lo sviluppo per il nucleare» non vanno fermate.
Dalla Cop26 di Glasgow, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani rilascia tre interviste, a Corriere, Repubblica e La Stampa, per presentare un progetto nato da un’idea della Fondazione Rockfeller, sulla quale ha convinto Mario Draghi a mettere il cappello. Si chiama «Global Energy Alliance for People and Planet», e promette di essere uno dei più grossi esperimenti di partnership fra pubblico e privato sul clima.
Il governo ci metterà una cifra simbolica, 10 milioni di euro, ma i soldi veri arriveranno dalle istituzioni private e multilaterali. Parteciperanno, tra gli altri, la Banca mondiale, la Fondazione Ikea, il Besoz Earth Fund. In queste ore, dice il ministro, «si stanno aggiungendo una decina di Paesi europei».
Dopo anni di tentativi andati a vuoto per ottenere impegni da parte degli Stati, la finanza privata ora ha abbracciato la transizione energetica. È un’occasione per migliorare la reputazione, ma anche di business. Secondo le stime di Cingolani, l’Alleanza garantirà 10 miliardi di euro per investimenti «a leva», ovvero saranno il volano finanziario per una cifra molto più alta, «fino a cento miliardi».
Cingolani racconta dei giovani coinvolti nella «Youth For Climate», dei «messaggi che mi scambio con molti di loro su WhatsApp» e dei 3-4 milioni di euro che il governo intende stanziare per rendere quel forum permanente. «Anche io da giovane ho protestato. Ma il mio obiettivo è far sì che quella protesta si trasformi in proposta».
Il sogno di un mondo decarbonizzato gli piace, ma per arrivarci ora non si può fare a meno né del gas, né del nucleare – dice. Il dibattito a livello europeo è aperto. Il governo che sta per nascere in Germania è deciso a chiudere tutte le vecchie centrali nucleari, ma in Europa sono in pochi a voler mettere quella tecnologia nel cassetto. Il governo Draghi ha una posizione cauta. Dice Cingolani: «Sul nucleare dico di aspettare» le valutazioni della Commissione europea, «poi gli Stati prenderanno le loro decisioni», tenendo conto delle nuove tecnologie come i mini-reattori «perché dalla ricerca possono uscire soluzioni inaspettate».
Entro novembre la Commissione Von der Leyen deve decidere se il nucleare vada considerata o meno un’energia rinnovabile. In un documento non ufficiale spedito a Bruxelles e diffuso ieri dall’Ansa, Parigi propone di introdurre tetti alle emissioni e la possibilità di pianificare impianti nucleari fino al 2030, puntando nel frattempo sulla tecnologia verde.
Cingolani specifica: «Si tratta di tecnologie non mature, da non confondersi con quelle su cui abbiamo fatto il referendum. Dopo la tassonomia, serviranno anni di studio per valutare tre cose: la sicurezza, il costo e la quantità di scarto radioattivo per energia prodotta. Giappone, Stati Uniti, Regno Unito e Francia stanno già facendo questi studi. Vedremo che cosa esce da questi numeri e, semmai ci vorremo pensare, ci penseremo con i dati in mano». Ma solo «se è considerato verde puoi pensare di investirci, altrimenti no. E magari nel frattempo scopriremo qualcosa di completamente nuovo che renderà questa discussione inutile».
Il ministro resta con i piedi per terra, ben sapendo che le fonti rinnovabili, al momento, da sole non bastano: «Per dismettere il metano dobbiamo avere continuità, puntando su un energy mix che contempli maggiore eolico e solare. Essendo però fonti intermittenti dobbiamo stabilizzare almeno il 25% del nostro fabbisogno. Significano centinaia di terawattora, servono grossi investimenti sugli accumulatori». E poiché al momento però non sappiamo quanto davvero un’energia sia verde o meno, rischiando di produrre con una persistente impronta di carbonio, Cingolani dice che bisogna aspettare la tassonomia Ue. «L’Europa deve stabilire i criteri. Quali sono le sorgenti di energia cosiddette verdi. È un lavoro fondamentale. Poi ogni Paese calibrerà autonomamente il proprio energy mix, ma bisogna fare chiarezza su dove e come».
Ma il bilancio di Cingolani sulla Cop26 è positivo: «Qui a Glasgow c’è un senso di urgenza manifesto e condiviso. Non era scontato. Al G20 abbiamo ottenuto un grande risultato: l’accordo sul tetto di 1,5 gradi. È normale che sul quando ci siano differenze tra economie diverse, ma è comunque un passo avanti. Così come lo è la consapevolezza che non si può più pensare nell’ottica dei 100 miliardi promessi ai Paesi in via di sviluppo, ma di almeno 1.000 miliardi l’anno. Qui entrano in gioco la filantropia, le banche, l’interazione tra pubblico e privato che non serve solo alla transizione energetica, ma a colmare diseguaglianze colossali», spiega il ministro. Certo, non basta, «ma è la condizione senza cui non possiamo fare il resto. Poi servono i rapporti internazionali, un investimento epocale in tecnologia. L’impegno di net zero al 2050 è molto gravoso. Net significa netto, il bilancio tra quello che emettiamo e quello che intrappoliamo di C02 deve essere zero. Per farlo bisogna accelerare sul fronte delle tecnologie. Come per il Covid il senso di urgenza nato dalla pandemia ha portato a un vaccino in 18 mesi, sul clima deve accadere qualcosa di simile. Operazioni come la Global Energy Alliance possono essere acceleratori formidabili. I soldi sono la benzina, bisogna costruire la macchina».
Ma a che punto siamo in Italia con la dipendenza dalle fonti fossili? «Proprio sull’Ilva ci vedremo in questi giorni al ministero», risponde Cingolani. «Lì bisogna passare dal carbone all’elettrico: inizialmente si farà col gas, ma bisogna subito predisporre il passaggio all’idrogeno. Che deve essere verde». Ma «non si fa in un anno». «Forse in tre puoi passare al gas. Per l’idrogeno, bisogna capire quanto verde si riesce a mettere in piedi».