Gusti adultiOde all’amaro

Nasciamo affamati di dolce e finiamo per appassionarci al sapore opposto: storia di una dipendenza gustativa raccontata dallo chef Gianluca Gorini. «Il colpo di fulmine? Con un carciofo»

Dolce, salato, acido, umami, amaro: se letta in questo esatto ordine, questa sequenza di sapori base sono l’esatta metafora delle stagioni della nostra esistenza gastronomica. Da piccoli ricerchiamo il dolce, gusto che ci guida verso cibi ad alto contenuto calorico per trarne energia. Crescendo, iniziamo ad appassionarci al salato, una risposta al crescente fabbisogno di sali minerali. Poi arriva l’acido, il gusto dell’adolescenza e della contraddizione: il cervello, infatti, ci mette in guardia, attivando il sospetto che i cibi acidi siano andati a male. La stagione dell’umami, parolina giapponese che significa letteralmente “sapore delizioso”, e si associa alle scorpacciate al sapore di Parmigiano Reggiano, funghi e brodi orientali: cibi ricchi di proteine, necessarie per lo sviluppo dei muscoli adulti.
Con l’amaro, da sempre, abbiamo qualche problema. I nostri progenitori hanno imparato molto presto a diffidare di erbe e radici che riproponessero questo sapore perché, forse troppo spesso, si sono rivelate velenose e mortali. Oggi che abbiamo qualche nozione in più per non morire avvelenati nel bosco, riusciamo anche a gestire meglio questo sapore. Lo sa bene Gianluca Gorini, chef patron dello stellato daGorini in località San Piero In Bagno di Romagna. L’amore per Sara lo ha portato nel cuore della Romagna Toscana, una zona poco esplorata ma ricca di boschi e segreti culinari da scoprire, che molto hanno a che fare anche con l’amaro.

Con un poco di zucchero
Tutto passa dallo svezzamento. Per Gorini questo passaggio coincide con un nome molto importante nella storia gastronomica italiana: quello di Paolo Lopriore. Gorini intreccia la sua strada con quella dello chef di origini pugliese nelle cucine de Il Canto. «Il mio rapporto con l’amaro nasce da adulto, con un primo approccio spiazzante – ricorda. L’amaro ha un impatto importante sulle papille gustative: è un sapore che durante il nostro percorso di crescita non siamo abituati a sentire spesso. Anche come generazione, siamo abituati ad associare l’amaro alle medicine». Eppure, una volta compreso, anche l’amaro può diventare una droga potente, pari anche al dolce.
In un’intervista del 2014 Lopriore diceva che l’amaro è come avere a che fare con una ragazza vestita e truccata, di cui poi scopri la realtà che sta sotto il fard. E aggiungeva: «L’amaro è un aspetto della complessità della vita». Trattare questo sapore, scomporlo e renderlo accessibile sono passaggi di grande difficoltà e soddisfazione. Lopriore ha spiazzato tutti con la sua profondità di pensiero e la capacità di relazionarsi con il gusto. Ai tempi in cui la corrente spagnola era molto forte, lui ha preso la cucina italiana e gli ha dato spessore. Ha formato tantissimi giovani, che oggi lavorano su acidità, amari, persistenze gustative, tannini, macerazioni, fanno un po’ da guida anche a chef più navigati.

Galeotto fu un carciofo
La relazione tra Gorini e l’amaro è iniziata con un carciofo. «All’epoca de Il Canto i carciofi non mi piacevano – ricorda – ma l’allenamento del palato, dei sensi e delle papille gustative all’amaro mi hanno portato in tutt’altra direzione». Il piatto della conversione è stato il Branzino cotto in padella e servito con julienne di carciofi scottata in padella, servita con una salsa ottenuta dalle foglie di carciofo: «Nel piatto si incontravano un cuore dolce e una salsa amarissima, riuscendo ad avere nella stessa materia prima due sfumature di gusto completamente differenti. Oggi per me il carciofo è un piatto simbolo, che sintetizza perfettamente la mia idea di cucina». Secondo Coucquyt, Lahousse e Langenbick, autori de “L’arte e la scienza del Foodpairing” (Slow Food Editore), i carciofi crudi hanno un profilo aromatico molto complesso: si distinguono note verdi, erbacee, legnose, fungine, persino fruttate e floreali, con accenni speziati di chiodi di garofano. «Cuocendoli – scrivono – si fanno emergere aromi tostati e caramellati». Un parco giochi per chef giovani e meno giovani, ma altrettanto avventurosi.

Con il tempo il vocabolario della materia prima amara si è ampliato, facendo spazio a cime di rapa, cicorie, lampascioni e gli scalogni di Romagna. Tutti ingredienti che richiedono un approccio delicato, per poi poter scendere in profondità e apprezzarne tutte le sfumature di gusto. Non bisogna dimenticare le radici, che tanto hanno dato alla liquoristica bitter del nostro Paese. Gorini è anche un foragist e ha iniziato a introdurre questi ingredienti nelle sue ricette, conscio di doverle lavorare il meno possibile, estraendo l’amaro attraverso i grassi, usando burro o olio. Il risultato di questa ricerca su radici e grassi è visibile nel percorso degustazione più lungo, dove si può assaggiare un predessert a base di spaghetti con burro aromatizzato alla radice di genziana. «Ho scoperto che l’amaro si può addomesticare attraverso l’uso dei latticini: la combinazione di burro e genziana ti fa assaporare il gusto profondo della radice, tuttavia mitigato e reso amabile dalla componente grassa».

L’amaro spiegato ai principianti
Se vi è venuta voglia di provare a creare un rapporto con l’amaro, ecco uno starter pack. Gorini consiglia di iniziare dalle tecniche di cottura. Ad esempio, impariamo ad apprezzare davvero le verdure grigliate o gratinate, ma anche una fetta di carne fatta con una cottura un po’ più spinta: avviciniamoci all’amaro attraverso il bruciacchiato della griglia o quella crosticina saporita che il forno crea sui vegetali. Ma si può andare oltre. «Sono cresciuto in una famiglia di ristoratori e ho questo ricordo di mia zia che, quando si cuoceva l’arrosto, mi chiamava per mostrarmi la parte più buona del piatto, cioè la crosticina sul fondo utilizzata per creare la demi-glace, una salsa di grande profondità che custodiva la parte amara e bruciata della cottura dell’arrosto». In più, smettiamo di chiedere e bere birre dolci: questa bevanda è da sempre vocata all’amaro, al vegetale e all’acido.

Gli apostoli di un gusto difficile da addomesticare
Oggi Gianluca Gorini ha stabilito i confini del suo regno gastronomico nel territorio dove sorge il ristorante che porta il suo nome e, dal 2020, espone fiero la sua stella Michelin. Questo luogo è una perfetta metafora della provincia, il luogo italiano per eccellenza dove la filiera è a portata di mano, dove se ti affacci alla finestra rivedi lo stesso panorama che hai per le mani in cucina. Qui Gianluca seleziona e trasforma le eccellenti materie prime che il territorio gli mette a disposizione, con una spiccata dose di creatività e personalità, lasciando un ampio spazio all’amaro. Insieme a lui c’è Sara, compagna di vita e madre di suo figlio, che si occupa dell’accoglienza nella loro “casa” e di raccontare il valore della loro “scelta”.
Ma Gorini non è l’unico apostolo dell’amaro in Italia. Molto bene ha fatto Piergiorgio Parini, che ha salutato i fornelli, lasciando spazio solo alle consulenze. Un simbolo della sua ricerca sull’amaro resta il suo Risotto bianco mantecato con un burro aromatizzato alla pigna amaro e balsamico. Alberto Gipponi, nel suo Dina, a Gussago, sta approfondendo questo sapore con molta energia. Anche il discepolo di Antonio Bufi, Leonardo D’Ingeo, nelle cucine di Carico Milano continua a lavorare sull’amaro attraverso fermentazioni e lavorazioni che preservano con attenzione la materia prima. Ogni nome citato qui sopra sta giocando con le sfumature di questo sapore, che nella cucina italiana sono tante. «La sfida è essere in grado di prendere questo ventaglio di gusti e renderli comprensibili, altrimenti diventa un inutile esercizio di stile. L’amaro deve rimanere un gusto limpido, privo di sovrastruttura».

Il futuro è vegetale
Le esigenze nutrizionali stanno cambiando. Uno chef che ha in carta un percorso gastronomico da dieci portate ha il dovere morale di mandarci a casa leggeri. Per questo, la prima revisione va fatta sulle tecniche di cottura, che devono essere light, rispettose degli ingredienti, capaci di valorizzare ciò che finora abbiamo ignorato. «Il vegetale ha delle profondità gustative uniche: lavorando su questo aspetto, abbiamo osservato che il concetto gustativo va di pari passo con quello nutrizionale. E che i gusti amaro, acido e vegetale sposano questo pensiero. Sono gusti puri e, per questo, diventeranno cruciali nelle nuove tendenze gastronomiche, purché rispettati nella loro essenza. L’amaro appaga e quando maturi questa consapevolezza, è impossibile tornare indietro».

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