Se il fattore Omicron aprisse una nuova e drammatica fase della lotta contro la pandemia – ancora non lo sappiamo – diventerebbe inevitabile, a meno di non essere un Paese di pazzi, congelare la situazione politica e istituzionale. Non sapremmo dire se fino al punto da indurre Sergio Mattarella a un bis ma certamente da “costringere” Mario Draghi a restare a palazzo Chigi per continuare a dirigere le operazioni sia sul fronte della terza dose sia su quello dell’azione per prendere la seconda tranche dei soldi europei sviluppando le iniziative previste dal Piano di resistenza e resilienza.
D’altra parte – Omicron o non Omicron – la settimana che si apre vede il presidente del Consiglio impegnato proprio a implementare i passaggi necessari per la seconda tranche europea, anche perché su questo c’è da accelerare, e chiudere la manovra economica del governo con consultazioni formali – con tanto di calendario – dei vari gruppi politici che incontrerà uno per uno secondo una prassi inedita ma forse più fattiva.
Il corollario di tutto questo sarebbe l’accantonamento delle elezioni anticipate nella prossima primavera, ipotesi che per ragioni diverse e spiegate ormai diverse volte è nella testa dei leader dei principali partiti. E dunque questi leader dovrebbero rifare i loro calcoli e ricalibrare le loro linee politiche predisponendosi a tutte le evenienze.
Facciamo alcuni esempi. Matteo Salvini, che è sempre più in difficoltà, dovrebbe guardarsi dalla nouvelle vague dei governatori alla Fedriga, più pragmatica e governista; Giuseppe Conte dovrebbe misurarsi apertamente con la disinvolta egemonia di Luigi Di Maio, colpito sulla via di Parigi dopo le frequentazioni dei gilet gialli; Enrico Letta dovrebbe “stringere” sul Nuovo Ulivo e portare a casa un minimo di risultati, dopo che la Zan è andata com’è andata e sulle riforme istituzionali è il deserto, e rimandare il proposito di chiudere i conti con gli ex renziani.
Senza le urne i problemi dei tre leader appena citati verrebbero a manifestarsi più chiaramente ma è anche vero che i loro partiti avrebbero più tempo di ridefinire le loro identità e le rispettive strategie. E anche di darsi più da fare nell’azione a sostegno di un governo a quel punto a scadenza solo nel 2023. Le forze politiche potrebbero dunque trarre ex malo bonum, come si dice, tentando di ridare un senso alla loro storia perché una storia adesso un senso non ce l’ha.
Difficile dare torto a Ernesto Galli della Loggia: «I partiti che oggi calcano la scena italiana sono perlopiù dei gusci vuoti, quasi delle pure sigle […]. Non ce n’è uno che abbia una visione del futuro del Paese, la minima idea di che cosa debba essere e a che cosa possa servire l’Italia. I loro programmi consistono al massimo in vaghe enunciazioni di una sfilza di cose da fare. Sempre buttate giù alla bell’e meglio, senza alcuna priorità, senza indicazioni di fattibilità, di tempi, di costi. Nella loro vaghezza le richieste programmatiche dei vari partiti tendono così ad apparire (ed essere) pressoché tutte eguali e tutte inservibili».
Essendoci per fortuna un governo all’altezza della situazione, ecco dunque che l’allontantarsi delle urne potrebbe fornire ai partiti un’arma preziosa, se solo la si sapesse utilizzare: il tempo. Il tempo per rinnovare se stessi e, tra l’altro, per mettere a posto un sistema politico raffazzonato mediante una legge proporzionale in grado di riavvicinare la società alla politica.
Detto questo, non è certo da augurarsi una nuova fase emergenziale nella battaglia contro il Covid ma è saggio sin d’ora mettere in chiaro che il Paese in ogni caso non ha bisogno di crisi di governo e tanto meno di comizi. La crescente domanda del Paese, persino istintiva, di mantenere Mario Draghi a palazzo Chigi è di per sé un fatto da preservare e non da ostacolare con manovrette di parte alla Giorgia Meloni.
Se la stabilità di governo diventa con sempre maggiore evidenza un bene primario, nulla invece si può dire della corsa al Quirinale. Una volta esclusa, come sin qui argomentato, l’ipotesi-Draghi, resta molto in dubbio la possibilità che Mattarella compia un sacrificio personale anche tenendo conto che l’elezione del capo dello Stato potrebbe avvenire in pochi giorni, nel chiuso di Montecitorio, senza provocare traumi politici se solo si trovasse una convergenza tra gli schieramenti.
E, mentre il juke box mediatico sforna ogni giorno canzoni di ogni tipo soprattutto pescando tra i vecchi 45 giri di nomi del passato, aumenta nei Palazzi la consapevolezza che a giocare il ruolo decisivo sarà questo super-centro fatto di mille cose diverse che ha non solo i numeri ma il boccino politico in mano: e sarà verosimilmente da lì che verranno le ipotesi più unitarie, quelle che possono garantire una riuscita nelle prime votazioni e la tenuta del quadro politico. Lo sa Enrico Letta e lo sa anche Silvio Berlusconi – gli unici (a parte Matteo Renzi) che conteranno davvero nella partita che verrà giocata dai 1.005 grandi elettori – che il “bipolarismo quirinalizio”, cioè la prova muscolare del “polo contro polo” in questa situazione non ha futuro.