A quasi due anni dall’inizio della pandemia e dopo una quantità mastodontica di studi clinici, epidemiologici, virologici, immunologici, eccetera, di una cosa sola siamo certi quanto alla possibilità di evitare di ammalarci di Covid-19: che i vaccini e le vaccinazioni funzionano. Tutto il resto è un po’ come fischiare nel buio per farsi coraggio. Che lo facciano le singole persone, muovendosi a tentoni nell’incertezza, ha senso ed è normale. Chi, a torto o a ragione, sente di essere più a rischio probabilmente si igienizzerà le mani appena possibile, terrà la mascherina anche all’aperto, consumerà tonnellate di vitamine, eccetera. Sono comportamenti più o meno sensati, ma che stanno nel perimetro delle diverse risposte individuali a una situazione di pericolo.
I governi, però, dovrebbero fare qualcosa di diverso. Dovrebbero, per l’appunto, governare la paura, evitare che essa serpeggi nella società, minandone le basi e mettendo persona contro persona, individuo contro individuo, erodendo la simpatia che abbiamo gli uni per gli altri e, al contrario, accentuando quella tendenza alla polarizzazione che precede il Covid-19 ma che dal Covid-19 è stata grandemente esaltata.
Purtroppo si preferisce più spaventare che rassicurare. Per mesi eravamo il fronte avanzato della tragedia, con la più elevata mortalità, nonostante i lockdown, i distanziamenti e le mascherine, e poi grazie a una campagna vaccinale condotta mirabilmente sul piano logistico ci siamo trovati a essere il terzo Paese più vaccinato in Europa (dopo Spagna e Portogallo) e quindi anche tra quelli che al momento sono messi meglio per quanto riguarda l’andamento epidemiologico dell’infezione. Siamo messi meglio ma apparentemente siamo più allarmati, o più ansiosi di far comunque qualcosa, di chi sta peggio di noi.
Le reazioni di fronte alla scoperta di una nuova variante del virus (ma quante ce ne sono in giro che non vediamo e quante ancora ne verranno?) preoccupano più del coronavirus stesso e della variante in questione. Benché ormai sia abbastanza chiaro che le misure non farmacologiche non risolvono niente – anzi, sappiamo che il lockdown ha fatto più danni, rispetto alla crescita economica ma anche alla salute mentale delle persone, dei benefici attesi in termini di riduzione del contagio – mentre le vaccinazioni sono la risposta che funziona, siamo tornati a sentir parlare di lockdown, di mascherine all’aperto, di chiusura delle frontiere.
Questa è paranoia, ma soprattutto qualcuno sta prendendo gusto a cancellare le libertà fondamentali e a riportare l’autoritarismo in un mondo dove prima del Covid era stigmatizzato e non apprezzato dall’opinione pubblica. È inquietante ascoltare esperti o pseudotali ragionare come ai tempi in cui si ignoravano le cause della malattie infettive, rincorsi da giornalisti e commentatori che, forse spaventati o forse inclini a preferire le società chiuse, fanno da megafono ad autentici deliri venduti per consigli di prudenza.
Sembra di stare in un esperimento di psicologia. Anzi in due. Da un lato, vediamo fioccare risposte che sono il risultato di condizionamenti pavloviani o skinneriani: di fronte a un aumento dei positivi o alla comparsa di una variante. di cui ancora non si sa niente, un certo numero di esperti e politici risponde «lockdown!» ancora prima di pensare. Per partito preso. Il secondo esperimento dimostra la validità dell’ipotesi del rilevatore di fumo (lo smoke detector principle), per cui noi umani rispondiamo paranoicamente ovvero in eccesso a segnali che spesso sono innocui o sono falsi allarmi. Questa modalità ha tenuto in vita i nostri antenati nella savana pleistocenica, ma nelle nostre società complesse il mismatch può causare danni devastanti.
In un mondo dove l’idea di governo non fosse quella paternalistica di “preservare”, ma quella pragmatica di “gestire”, con gli strumenti e nei modi migliori possibili, le sfide e i problemi, si deciderebbe sempre sulla base delle conoscenze dello stato dell’arte e dell’esame degli obiettivi e delle condizioni di contorno.
Il virus in queste settimane circola più intensamente perché è inverno, perché i vaccini non sono anti-trasmissione ma anti-malattia, perché la variante ormai dominante è più contagiosa (ma non più letale) del ceppo originario. Per quanto tendano a infettarsi e a trasmettere il virus meno delle persone non vaccinate, le persone vaccinate possono infettarsi e trasmettere il virus, ma non si ammalano, o non si ammalano in modi gravi da finire in ospedale o in terapia intensiva. Si possono trovare nella condizione dei non immunizzati che sono chiamati asintomatici, ma tenderanno a trasmettere il virus in misura minore degli asintomatici non immunizzati. I vaccini funzionano e sono l’unica misura la cui efficacia è uniforme e NON dipende da quanto le persone sono vigili, per esempio attente a calzare sempre la mascherina (cambiandola regolarmente) o a tenersi a circa due metri dall’essere umano fisicamente più prossimo.
È questo ciò che rende i vaccini così utili e importanti: proprio il fatto che i loro effetti non dipendano dalla diligenza consapevole delle persone. A dispetto delle chiacchiere di questi mesi, il vaccinato non ha una condotta “moralmente” diversa dagli altri, e neppure diversa in punta di fatto: semplicemente, smette di rappresentare un problema potenziale (per quanto riguarda la malattia Covid-19) per il servizio sanitario nazionale.
La razionalità suggerirebbe quindi di accelerare sui vaccini. L’obiettivo dovrebbe essere avere così tante persone vaccinate da poter abolire una misura divisiva e con tanti profili dubbi come il green pass, che al quel punto non avrebbe più alcuna parvenza di utilità. È vero che la cosiddetta immunità di gregge con questo virus non si otterrà, ma, se si arrivasse al 95 per cento di copertura, l’impatto sanitario del virus probabilmente si estinguerebbe. Ci si dovrebbe quindi concentrare con strategie mirate per vaccinare il maggior numero possibile di persone. Fra l’altro, la struttura del generale Figliuolo ha dimostrato di essere efficiente nel vaccinare le persone. Perché, quindi, non cercare di aiutarla e spingerla fino all’ultimo miglio?
Invece, sembra che abbiamo scelto di riportare indietro le lancette dell’orologio di un anno, tornando a misure non farmacologiche, che richiedono una diligenza personale la quale non è uniforme, e che hanno un sapore metafisico-religioso, come le mascherine all’aperto. Col ritorno delle mascherine all’aperto (molto spesso riutilizzate per giorni: quale protezione potranno mai dare?) siamo alla pseudo-scienza di Stato.
In un assembramento di decine di persone che festeggiano o ballano all’aperto un rischio di trasmissione, per quanto basso c’è, ma una persona che passeggia da sola o con il partner, il figlio o la famiglia in un parco o in una piazza o guardando le vetrine non rischia di fatto niente. E anche chi si trova in un “assembramento” (una delle più odiose, fra le nuove parole della pandemia) affronta un rischio che, in ragione delle sue caratteristiche (è giovane, è già vaccinato, eccetera), potrebbe scegliere di correre.
In Italia, diversamente da altri Paesi occidentali, non si è ancora ascoltato un esponente del governo o un esperto riflettere sull’impatto che la situazione in corso sta avendo sulla qualità della salute mentale delle persone. Siamo pronti a scommettere che, quando tutto sarà finito e proveremo a fare qualche bilancio, i danni più gravi li registreremo con le perdite di attività scolastiche e socializzazione dei nostri ragazzi, che saranno pagate con minori skills professionali e quindi perdite di reddito, e con la quantità e gravità dei disagi mentali causati dall’ansia e la paura generate da una comunicazione terroristica e improntata a diffondere sfiducia sociale.
Nella situazione dell’Italia l’obiettivo dovrebbe essere vaccinare un numero il più ampio possibile di bambini, dal momento che le scuole continuano a interrompere la didattica in presenza con l’identificazione di un positivo (indipendentemente dagli esiti sanitari), e mobilitare i medici di medicina generale, che dovrebbero chiamare i loro assistiti che non si sono vaccinati, invitandoli a farlo attraverso un dialogo che sfrutti, a buon fine degli assistiti e di noi tutti, quel residuo di fiducia che le persone ancora hanno nei medici – più che in qualsiasi altro attore sociale, non parliamo degli scienziati.
Oltre la metà o più (nessuno lo sa) dei non vaccinati non è NoVax per partito preso ma per timori che una buona informazione non può pensare di non riuscire a risolvere. Con le persone esitanti si può parlare ma ci deve parlare un medico per cavarne qualcosa. Queste due azioni pratiche fattibili, se si comunica bene anche con i genitori, basterebbero a metterci in sicurezza. E poi si vedrà se basterà una terza dose o se ne servirà una quarta, eccetera. Per ora non lo sa nessuno e se il passato insegna qualcosa bisognerebbe evitare di dare messaggi fuorvianti (anche giocando sulla durata del green pass).
Da questo punto di vista, il mondo della comunicazione dovrebbe interpretare diversamente o più utilmente il ruolo di servizio pubblico che pensa di stare svolgendo ma anche l’offerta privata. Oggi, stampa e televisione si schierano “con la scienza” in buona sostanza irridendo i NoVax o trasformandoli in spauracchi. Non sembra funzioni molto per scioglierne i dubbi o cambiarne le posizioni.
Tutti credono di sapere perché i NoVax sono come sono e tutti credono di sapere cosa si deve fare di loro o con loro. In realtà, ogni NoVax è diverso dagli altri e in Italia sono un’esigua minoranza, malgrado lo sport nazionale sia dipingerli come un movimento sovversivo di massa. Attenzione, però, perché può essere una profezia che si autoavvera. Il paternalismo è gradito a molti ma stimola in altri una reazione avversa molto forte. Il numero degli esitanti si può arricchire dei molti che sono indotti a provare simpatia per dei poveretti che continuamente vengono messi alla gogna in televisione.