Rolling Stones “Big Hits (High Tide and Green Grass)”, 1966
Questo è stato il primo Lp che ho comprato, il mio starting point per un viaggio che allora certo non sapevo dove mi avrebbe portato. Comprato all’inizio del ’66 a Spezia, in un negozio di dischi dalla cui vetrina avevo già afferrato qualche mese prima ’Satisfaction’, che per quanto poco quel tredicenne coi calzoni corti ne capisse era chiaro che era un pezzo che sarebbe rimasto: anche se in quale storia non si sapeva, visto che la ’storia del rock’ era un’ipotesi tutta da inventare. Mick stesso, alla domanda: «Che farete l’anno prossimo?», aveva detto: «Chi lo sa? Non so quanto dureremo, magari fra un anno o due faremo un altro mestiere». Nel suo caso, visti gli studi alla London School of Economics (quanto gli sarebbe servito), probabilmente in qualche branca dell’economia. Gli altri chissà.
Le band allora non pensavano e procedevano per album ma per singoli, e nonostante (scoprirò poi che) gli Stones di album ne avessero già pubblicati, i greatest hits erano all’ordine del giorno, en plein di hit sicuro e l’opzione migliore per chi non aveva troppi soldi in tasca. E gli hit degli Stones e dei Beatles arrivavano frequenti, perché allora la competizione era feroce e i contratti ne prevedevano parecchi ogni anno. Gli anni 60 saranno l’epoca d’oro del singolo che – come scrive Anthony De Curtis nella sua intro a “The Singles Collection – The London Years 1962-71”, triplo imprescindibile cofanetto con tutte le facciate A e B degli Stones nei loro primi 10 anni – deve essere «istantaneo e allo stesso tempo avere quel potere evocativo che durerà per sempre. Un grande singolo quando lo senti per la prima volta suona familiare e inevitabile, e ogni volta che lo sentirai successivamente deve in pochi minuti deve riassumere un intero mondo immaginario, e quel mondo deve diventare parte della coscienza dell’ascoltatore ogni volta che lo ascolterà, per anni e anni».
“Big Hits” di questi singoli ne ha 14, e ognuno ha questo potere. Sono quelli che spianano la strada degli Stones, quelli con cui andare lancia in resta alla battle of the bands con i Beatles in un dualismo che infiammerà ed eleverà tutto il decennio, classici in repertorio ancora adesso.
Con la sua copertina a fish-eye e sul retro i cinque al Franklin Canyon Park a Los Angeles (edizione inglese, quella americana ha quest’ultima in copertina e due brani differenti), “Big Hits” era fico allora, e risentito 55 anni dopo lo è ancora. I singoli coglievano il senso del tempo, energia e a volte innovazione condensati in due-max-tre minuti, spesso all’inizio cover e solo in un secondo tempo firmati dal gruppo stesso.
Questo valeva per tutti – i ritmi di uscita, come detto, erano fordiani – ma ancora di più per gli Stones perché, non dimentichiamolo, il loro progetto era quello di essere una band di blues, punto. Volevano essere sorta di ambasciatori, rispettosi parigrado degli artisti di blues e r’n’b americani, i loro idoli. Si sarebbero forse accontentati di questo ancora per anni, se il loro manager, il diciottenne Andrew Loog Oldham, bello e cool come loro ma molto più lucido, non gli avesse detto che così i soldi non li avrebbero fatti mai. Loro dovevano rivolgersi ai ragazzi inglesi, «non suonare i brani di artisti neri di mezza età». In questo ponte ideale fra la tradizione nera americana e il mondo pop del Vecchio Continente gli Stones, con lo spirito dei puristi e col talento darwiniano dell’evoluzione, anticipano di qualche anno quello che sarà il trend inglese del blues-rock degli anni 60. Anche se, lo sappiamo bene e li amiamo per questo, sono ancora oggi legati a quella forma, il progressive blues o la psichedelia o l’indie rock non sono mai stati nel menù.
Certe cose sono predestinate. Mick e Keith sono compagni di classe nel Kent a sette anni, si perdono di vista e si ritrovano dieci anni dopo sul marciapiede della stazione ferroviaria di Dartford, sembra già un pezzo di Robert Johnson. I dischi sotto il braccio di Mick, la carta d’identità di quegli anni, sono il primo legame, Muddy Waters e Chuck Berry indicano da subito la mappa, r’n’r e blues. Oggi c’è una placca per celebrare quel 17 ottobre 1961, un giorno dopo e sarebbe stato il 35esimo di Chuck. Le stelle erano allineate.
Non a caso, Blues Boys è il nome della prima band dei futuri Glimmer Twins, il passo successivo sono le jam con uno dei padri del blues inglese, Alexis Korner e la sua Blues Incorporated. È lì che conoscono Brian Jones, Charlie Watts e il tastierista Ian Stewart. L’idea è quella di fare una band che suoni Chicago blues, e leggenda vuole che quando finalmente vengono ingaggiati per il primo concerto e un giornalista chiede al telefono a Jones, in quel momento il leader, come si chiameranno, Brian guardi la copertina di un disco di Muddy Waters sul pavimento e citando scandisca «siamo i Rollin’ Stones», la g in più arriverà al secondo concerto. Poi arriva Bill Wyman, cinque anni più anziano, che impressiona tutti con il suo amplificatore Vox AC30, e quando torna alla base anche Charlie, il 12 gennaio 1963 all’Ealing Jazz Club nella West London, l’equipaggio è al completo e si può cominciare a rotolare sul serio.
A maggio Oldham, indirizzato a loro dai Beatles con cui lavorava, diventa manager al posto del primo Giorgio Gomelsky. Diciottenne ambizioso, è ancora minorenne e mamma deve co-firmare i contratti, ma ha quel cinismo e quella visione che creerà il mito. Invita subito Stewart a uscire dalla formazione per rimanere solo come sesto strumentista in studio: «Non ha il physique du rol per la parte, e sei facce sono troppe per i fan da ricordare».
Cambia il look da tutti-vestiti-uguali, tipo uniformi, che Brian Epstein ha creato per i Beatles (e che di conseguenza indossano quasi tutti i gruppi dell’epoca), gli dice di fare il contrario, farsi crescere i capelli, vestire tutti diversi, con un look trasandato. Vuole che gli Stones siano «energetici, espliciti sessualmente, perversi, un manipolo di indesiderabili imprevedibili che sono minacciosi, rozzi e animaleschi». Insieme alle copertine con le facce serie, non sorridenti, nascono anche le famose frasi provocatorie, tipo «fareste mai uscire vostra figlia con un Rolling Stone?», che aiutano a creare quell’immagine un po’ depravata che combacerà perfettamente con la natura dark del rock’n’roll. Wyman sosterrà che lo erano già da soli, lui l’ha solo sfruttato, ma siamo lì, la sostanza non cambia. Keith dirà: «L’etichetta ce l’hanno un po’ appiccicata addosso, ma a quel punto ci siamo detti perché no? Se dobbiamo essere i bad boys, divertiamoci e facciamolo fino in fondo».
Oldham porta a casa un contratto con quella Decca che si è già scottata e fatta ridere dietro rimandando a casa i provinanti Beatles: li ingaggia offrendogli royalties triple per una band al debutto, completo controllo creativo e la proprietà dei loro master. L’accordo contempla anche il fatto che possano incidere in studi di loro gradimento, ed è un’altra sostanziale differenza con i Beatles. Mentre i rivali incidono i loro dischi ad Abbey Road, tutto preciso, orari rigidi e tecnici in camice, gli Stones scelgono i Regent, scatole di uova come isolanti alle pareti e un suono che sovrappone un po’ gli strumenti, in modo da creare un impatto sonoro più potente e meno patinato. E, dato il costo basso, permette loro di spendere in studio più tempo.
La diversità dai Beatles è ben sintetizzata dal loro secondo singolo: dopo il primo ’Come On’, brano minore di Chuck Berry a cui riservano un trattamento molto pop, tanto che non lo suonano mai dal vivo, Lennon e McCartney scrivono per loro ’I Wanna Be Your Man’. Paul come sempre amichevole e gentile ricorda «eravamo amici, e pensavamo sarebbe stata buona per loro», John 20 anni dopo come sempre sardonico «un throwaway, un pezzo da buttare, non a caso ci sono solo due versioni, quella di Ringo e quella degli Stones». Se ascoltate le due versioni, quella dei Beatles è gioiosa e festosa, quella degli Stones è frenetica, sporca, batteria stranamente lontanissima ma un giro di basso che diventa predominante su quel ritmo alla Bo Diddley, e un assolo di chitarra acido, cattivissimo. Vale un #12 e la prima apparizione a Top of the Pops. Il ritmo alla Bo Diddley viene usato, meglio e con migliori risultati, sul terzo 45, ’Not Fade Away’. È scritta da Buddy Holly, il cui catalogo – un r’n’r gentile e meno selvaggio degli altri padri fondatori – in teoria è più in sintonia con McCartney e i Beatles: Mick e Keith l’hanno visto dal vivo in un tour inglese nel ’58, non a caso «era il pezzo che ci piaceva di più». Gli Stones la prendono, la strapazzano, accentuano quel ritmo che origina in Africa e ispira una danza, la hambone, osso di prosciutto, durante la quale, per darsi il ritmo, si schiaffeggiano gambe e corpo.
Sono tutte sul primo album dove di cover notevoli ce ne sono altre, l’immortale ’Route 66’ e una versione sporca e cattiva di ’I Just Wanna Make Love To You’ di Muddy Waters, un pezzo scritto dal principale autore della Chess a Chicago, Willie Dixon, al cui canzoniere torneranno di frequente. C’è anche il primo onesto tentativo di soddisfare l’urgenza di Oldham e creare una partnership autorale come quella di Lennon&McCartney, ’Tell Me’, una ballata non a lieto fine, in cui Mick implora la sua bella di tornare a casa da lui. Curiosamente, i due firmano con uno pseudonimo, Nanker Phelge, i brani più negroidi e in proprio producono un’altra delicatezza: dopo esser stati chiusi a chiave da Oldham in cucina finchè non scrivessero qualcosa, se ne escono con ’As Tears Go By’, malinconica e crepuscolare. Cantata con voce esile da Marianne Faithfull, «un angelo con le tette» come la definisce Oldham a prima vista a un party mettendola subito sotto contratto, arriva dritta in classifica. Cresce l’autostima.
Nel giugno 1964 gli Stones sbarcano in America, ma la scalata sarà ripida, meno istantanea e trionfale dei Beatles – che hanno già esordito all’Ed Sullivan Show a febbraio – e degli altri gruppi inglesi della British Invasion che si sono messi in scia. In un bel pezzo sul loro sbarco oltreoceano scritto da Paul Trynka per un’edizione speciale di Mojo, Oldham racconta: «Sono atterrati in America senza le ’gambe di vinile’. In Inghilterra il problema del non avere troppi hit lo gestivamo con le palle, ci sentivamo invincibili. Ma negli USA, tranne che nei posti dove ci hanno accolti come i Sex Pistols, era imbarazzante. Finchè non abbiamo messo le mani su ’It’s All Over Now’ e ’Time Is on My Side’».
Gli Stones entrano nei mitologici studi della Chess a Chicago consapevoli che le cover di brani blues in classifica non ce li avrebbero portati. Sanno anche che se vogliono mantenere quel suono che ormai li caratterizza, quegli studios e quelli della RCA a Los Angeles sono il paradiso: «Avevano a quei tempi un’idea molto migliore di come incidere il rock’n’roll. Era nato lì». Murray The K, famoso dj che li ha ospitati in onda, gli suggerisce un pezzo appena uscito per l’etichetta di Sam Cooke, ’Its’ All Over Now’, scritto e cantato da Bobby Womack con la sua band The Valentinos. Mick lo interpreta con quell’aria un po’ strafottente di chi la sa più lunga e si è lasciato la sua bella alle spalle:
«Mi ha buttato fuori di casa, era penoso quanto piangessi
Ma i tavoli si sono rovesciati adesso, è il suo turno a piangere
Perchè la amavo una volta, ma è tutto finito adesso».
La chitarra elettrica piena di eco di Keith in stile rockabilly, con quelle pennate che si porterà dietro per tutta la vita, e si comincia davvero ad avere un’idea di chi potranno essere i cinque: il primo #1 in G.B., hit minore negli USA.
’Time Is on My Side’ ha invece una lunga storia: nasce come brano di jazz strumentale, scritto da Jerry Ragavoy (che fra le tante scriverà ’Piece Of My Heart’ per Janis Joplin) e incisa dal trombonista Kai Winding nel 1963 col contributo vocale di Cissy Houston, madre di Whitney, e delle due sorelle Dee Dee e Dionne Warwick, ed esce sulla madre di tutte le etichette di jazz, la Verve. Ma l’anno dopo, completato il testo e con arrangiamento soul, viene incisa come lato B di un singolo da Irma Thomas, la regina del soul/r’n’b di New Orleans. Mick la canta con tutta l’urgenza di chi sa che il tempo – e non solo quello per ricuperare la donna fuggita via – è davvero dalla sua parte. Arrivano finalmente nella top ten americana, che vale un invito all’Ed Sullivan Show. Il presentatore del varietà della domenica sera, in cui si susseguono personaggi fra i più disparati, show per famiglie abbastanza puritano ma col potere di lanciare i fenomeni, da Elvis ai Beatles, quando vede le loro pettinature e il casino che impazza in studio giura che non li inviterà più. Ma si dovrà rimangiare la parola, e anche parecchie volte.
Il terzo brano che incidono negli studi della Chess nel novembre ’64 è un ritorno alle loro origini blues, anche per distaccarsi dal successo pop degli ultimi tre singoli. Viene scelto ’Little Red Rooster’, sempre di Dixon, che è stato già interpretato maestosamente tre anni prima da Howlin’ Wolf. Il cantato del giovane inglese non può essere potente e minaccioso come quello del lupo ululante, ma Mick non vuole strafare, la canta in maniera essenziale, personale. È soprattutto l’arrangiamento di Brian Jones che risplende: il suono della sua armonica, la sua slide elettrica, affiancata dall’acustica di Keith, sono magnifiche, e creano il template degli Stones che verranno quando Jones non ci sarà più. È il brano di cui Brian sarà più orgoglioso, quello ’da purista’ che bilancerà il lato più pop del gruppo che fra poco comincerà a sfuggirgli di mano: il suo sogno, portare al no.1 in Inghilterra un brano di blues, a tutt’oggi l’unico brano che ci sia mai arrivato, si è realizzato.
Quando gli Stones tornano negli USA, all’inizio del ’65, incidono la loro versione di un brano inciso nel ’58 da Pops Staples e le sue tre figlie, conosciuti come Staple Singers. ’This May Be The Last Time’ ha l’ispirazione religiosa che caratterizza il gruppo più famoso del panorama gospel americano. «Quando l’ho sentito ho pensato, che bel pezzo musicalmente parlando, rilassato, Chiesa, con un anelito», ha detto Keith, «Posso fare quello che milioni di altri troudabour hanno fatto, ri-lavorare un pezzo tradizionale, dargli nuova vita. If we just put the boot on it, se ci mettiamo un po’ di grinta, può prendere un altro significato». Da ammonimento spirituale il brano prende la piega dell’avvertimento per la ragazza dispettosa:
«Te l’ho detto una volta, e te l’ho detto una seconda
Non ascolti mai i miei consigli
Ma questa potrebbe essere l’ultima volta…».
Pops ci rimarrà male, ’questo è un furto’, Keith dirà «ma la sua origine, come tutti i traditional, si perde nella nebbia dei tempi». Keith in fondo ha fatto proprio il meccanismo del blues, riciclare quello che qualcun altro ha scritto chissà quando. È il primo #1 americano, gli Stones sono entrati in Serie A.
I tour son diventati più facili, sempre ritmi infernali ma il successo aiuta, e anche gli stimolanti. Si chiedono perchè i musicisti neri americani che incrociano siano sempre sù di giri e loro invece si trascinino da un camerino all’altro: un po’ di anfetamine, che in Inghilterra già girano, qualche spinellino, e il gioco è fatto. Ci si può cominciare a divertire, posti fichi e ragazze e tutto il resto non manca. L’immagine di bad boys però viaggia con loro, e la specialità della casa sta diventando gli scontri fra polizia e fan, che adorano far casino, menarsi, scontrarsi, creare il caos. Una notte, dopo un concerto a Clearwater, Florida, interrotto dopo quattro canzoni per la solita rissa, vanno a dormire al Jack Tar Harrison Hotel.
Keith si sveglia nel cuore della notte con in mente un riff, accende il registratore portatile che ha appena comprato, e si riaddormenta. Quando si sveglia, trova un motivetto, una sola frase biascicata, I can’t get no satisfaction, e quaranta minuti di lui che russa. La mattina dopo la fa sentire a Mick a bordo piscina. Quella riga di testo forse Keith l’ha presa da una frase di Chuck Berry in ’Thirty Days’, ’I’ can’t get no satisfaction from the judge’, il motivetto è un po’ embrionale, ma Mick ci lavora un po’ a bordo piscina per un paio di giorni – come era loro costume, Keith portava un riff e Mick ci costruiva sopra – e ne incidono un primo abbozzo a Chicago. Quando tornano in studio a L.A. ci rimettono mano e la reincidono con l’aiuto di Jack Nitzsche, musicista poliedrico che li assiste sempre durante le registrazioni, gettando lì idee, suonando il piano, facendo da collante sulle prime sperimentazioni che tentano.
È Ian Stewart che porta in studio una delle prime fuzz-box, il distorsore per chitarra che diventa la spina dorsale del brano, col quale Keith imita la sezione fiati con cui voleva arrangiarla (curiosamente, in pratica ha in testa l’arrangiamento che ne farà Otis Redding). Per il testo Mick si ispira, più che alla insoddisfazione sessuale (che non manca mai, ca va sans dire), alla società consumistica che vedono intorno a loro: l’insoddisfazione è per l’invasività della pubblicità, per il materialismo della way of life americana, per la commercializzazione di ogni aspetto della vita. E ne diventa la perfetta descrizione e critica insieme:
«Quando guido in macchina e arriva uno alla radio
Che mi continua a raccontare di qualche informazione che non mi serve
Ma che dovrebbe eccitare la mia immaginazione
Non riesco a essere soddisfatto, Anche se ci provo, ci provo, ci provo…
Quando guardo la tv e arriva uno che mi dice
Quanto può essere bianca la mia camicia
Ma non può essere un vero uomo perchè non fuma
Le mie stesse sigarette
Non riesco a essere soddisfatto, Anche se ci provo, ci provo, ci provo…»
È un piccolo flash dell’America dei consumi vista con gli occhi di un ragazzo del Vecchio Continente: erano arrivati con gli occhi aperti in scoperta della loro terra d’ispirazione, 18 mesi dopo la guardano con il sarcasmo di chi ha visto una realtà diversa e ha capito tante cose, consapevolezza che ai Beatles richiederà molto più tempo: «Forse siamo stati più bravi ad assorbire la cultura americana», disse Jagger, «o forse altre band volevano mantenere un certo distacco, non esserne catturati. Nei Beatles c’è ancora molto forte un elemento di vaudeville britannico, noi per via del blues e di tutto il resto eravamo influenzati, continuamente americanizzati. Quando poi siamo arrivati di persona, siamo diventati velocemente molto consapevoli della cultura americana».
Comunque, quando ’Satisfaction’ arriva al #1 con quel testo di critica sociale, per certi versi il loro status in America è considerato a livello di Dylan, il che porta qualche gelosia. Keith e Dylan si incontrano in un night, l’Ad Lib a Leicester Square, e Keith ricorda: «Bob è stato un po’ pungente. Stava là in fondo, al buio, con gli occhiali neri e i capelli tutti sù, supercool. Cominciamo a parlare e poi fa “Yeah, io avrei potuto scrivere ’Satisfaction’. Ma voi non avreste mai potuto scrivere ’Desolation Row’”. Immagino la risata di Keith: “Oh, ma non credo che avrei mai voluto».
’Satisfaction’ dà il via a un periodo di singoli irresistibili, ma ricordiamo anche gli album che escono in quel breve periodo fra il ’64 e il ’66 (sempre spaiati e mischiati nelle selezioni fra G.B. e USA, un mal di testa a stargli dietro), perchè su qualunque sezione critica li vediate, prendete Allmusic.com, sono tutti fra le 4 e 5 stelle: singoli menzionati a parte, “12×5” ha una cover di un altro Berry-classic, ’Around and Around’; “Out Of Our Heads” (ricorda nulla, Maneskin?) ha dentro ’Heart of Stone’, gran ballata blues, e due ballate più folk, ’Play With Fire’ e ’I’m Free”; “December’s Children” ha la loro versione di ’As Tears Go By’, il classico del country-blues ’You Better Move On’ di Arthur Alexander e ’Get Off My Cloud’.
È il brano che insieme a ’Satisfaction’ dà il via a una stringa di canzoni in cui Mick abbandona ogni traccia di romanticismo e canzoni d’amore – peraltro sempre molto sui generis, ben lontane dalle ’Girl’ e ’Michelle’ dei Beatles – ed entra pienamente del ruolo del ribelle, critico e stufo di quello che lo circonda, infastidito da pubblicità e gente ordinaria, stressato e sarcastico nei confronti di quello che vede intorno.
’Levati dalla mia nuvola’, è come dire levati dai piedi, e lo canta con tutta la forza e la strofottenza che ha in corpo nei confronti del mondo, con sotto un pattern di batteria raddoppiato di Charlie da antologia.
Ormai sono emancipati dalla rilettura dei classici del blues o del r’n’b o dalla voglia di scrivere brani che gli assomiglino. Hanno trovato una loro strada per generare un r’n’r che non è quello originale anni 50 e che non è neanche quello intriso di suoni e sapori del Sud americano con cui imberranno gli album da “Beggar’s Banquet” in poi. Lo possiamo chiamare beat, forse, perchè è la parola-chiave di quel lustro inglese, ma è comunque qualcosa di molto potente e originale.
Trynka chiude l’articolo ricordando come Oldham avesse questa percezione della stanchezza e straniamento dovuto a una vita vissuta a manetta, mentre il mondo ti passa davanti a velocità inafferrabile, in una maniera pratica, cinica, fattiva, e che l’intensità di quella vita portasse ispirazione, non sofferenza: «Non c’è pressione, stai solo giocando con le regole del gioco che ti è stato concesso di giocare. Quelle regole sono che un successo più grande ti porta più registrazioni, non un anno di promozione com’è oggi. Tentavamo di registrare almeno tre o quattro tracce in un giorno. Andavi a casa in un motel o in un albergo. E cosa puoi fare quando hai finito di mangiare, di fare shopping, di chiaccherare, di telefonare a casa e avere il cazzo strofinato? Ne scrivi».
Nel 1966 pubblicano ’Aftermath’, che sta agli Stones come “Rubber Soul” sta ai Beatles. Sono per entrambi i primi album in cui sono autori di tutti i brani, e per gli Stones è sicuramente il primo grande album. Aldilà di ’Going Home’, una jam bluesistica di 11’ che infrange ogni record di durata di un singolo brano, di pezzi chiave ce ne stanno tanti. C’è, soprattutto, un atteggiamento considerato, allora e ancora adesso, un po’ sessista (anche se da un bad boy, per quanto dagli occhi azzurri, non puoi pretendere fiori e squisitezze): ’Out Of Time’, ’Stupid Girl’ e tantopiù ’Under My Thumb’ sono tre frecciate al mondo femminile piuttosto dirette, ruvide e cattive. Sono bilanciate, si fa per dire, da quel brano rinascimentale (un po’ per finta, un po’ no) di ’Lady Jane’, in cui Brian Jones suona il dulcimer e Mick si prostra di fronte alla sua lady promettendo eterna fedeltà in quella che sembra una epistola di altri tempi:
«Mia dolce Lady Jane, quando ti vedrò di nuovo
Sono il tuo servo, e umilmente lo rimarrò
Ascolta solo questa invocazione, o mio amore,
In ginocchio, amore mio,
Io sono devoto a Lady Jane».
Effettivamente, a pensarci bene, forse è proprio una parodia, non è roba da Jagger, mi sa che l’ha copiata da qualche libro antico. Tre brani per chiudere la sequenza di “Big Hits”: i primi due escono solo come singoli, e sono cattivi, sonicamente e come atteggiamento, forse ancora in scia di quell’esaurimento produttivo del tour americano. Il primo, non a caso, parla di esaurimenti nervosi in serie, anche se di una qualche ragazza:
«Quando eri una bambina sei stata trattata bene
Ma non ti hanno mai cresciuto nella maniera giusta.
Viziata con mille giocattoli, ma piangevi tutta la notte
Tua madre che ti ignorava deve un milione di dollari di tasse
E tuo padre sta ancora cercando un modo di perfezionare la cera da soffitto che vende…
Eri ancora a scuola quando quello scemo ti ha davvero incasinato la mente
Dopodichè hai smesso di trattare la gente con gentilezza
Durante il nostro primo viaggio ho cercato di riarrangiare la tua mente
Ma dopo un po’ ho capito che stavi incasinando la mia
È meglio che ti fermi, che ti guardi in giro
Eccolo che arriva, il tuo 19esimo esaurimento nervoso…».
L’altro singolo, che arriva imbustato in una copertina (abbastanza anomala, all’epoca) in cui sono travestiti tutti da donna, Bill in uniforme militare in sedia a rotelle, è una frecciata alle madri iperprotettive e alle figlie che ’dove siete state tutta la vostra vita?’. Claustrofobico e paranoico, definito da Jagger «il definitivo freak out», chiude il 1966 su un tono apocalittico, nervi ormai fritti e la necessità di riflettere molto e cambiare direzione.
«Hai visto tua madre, baby lì nell’ombra?
Sono felice di averti aperto gli occhi
I suoi ’non puoi’ ti avrebbero fatto gelare nel ghiaccio».
In mezzo a questi c’è quello che per me, al pari di ’Satisfaction’, è il grande 45 degli Stones anni 60, ’Paint It Black’, uno dei brani più dark di tutto il repertorio, le note del sitar di Brian Jones come graffi che tagliano dentro, un crescendo drammatico di tensione che sfocia in un coro ossessivo, un desiderio, una supplica: paint it, black!
Tutto nasce in studio, quando Bill Wyman per scherzo pesta sui pedali dell’organo un blues lento, vagamente funky, poi sempre più veloce. Ma non succede nulla finchè Brian Jones non imbraccia il sitar che ha comprato in una vacanza con Keith alle isole Fiji, e comincia a pizzicarne le corde con intensità sempre crescente. Non è solo l’esotismo dello strumento, ma anche la maniera di suonarlo che danno il tocco psichedelico che fa la differenza. Se si confronta con quello, gentile e d’accompagnamento, di George Harrison lo stesso anno su ’Norwegian Wood’, è chiaro che c’è una intensità, un’urgenza totalmente diversa, sottolineata magnificamente dalla batteria tribale di Charlie Watts. È anche forse l’ultimo momento di grandezza di Brian, colui che veniva considerato ’il coloritore’ del gruppo, colui che dopo il blues aveva portato strumenti esotici e tonalità che agli altri erano sconosciute. Il suo lavoro da qui in poi comincerà a declinare, un po’ per la sua dedizione alla bella vita e alle droghe, un po’ perchè progressivamente emarginato dalla guida creativa da M&K. Ma qui è ancora imprescindibile.
Chi parla qui è maledettamente depresso. È di umor nero, e vuole solo nero davanti e intorno a lui. È una canzone di morte, o meglio, di funerale. C’è un corteo funebre:
«Vedo una fila di automobili, e sono tutte dipinte di nero.
Con fiori e col mio amore che non tornerà più».
Il dolore personale però diventa una metafora di nero che avvolge tutto il mondo, altra roba rispetto al pop psichedelico e ottimista di quell’anno: Mick Jagger definirà ’Paint It Black’ come il primo pezzo di psichedelìa angosciosa….
«Guardo dentro di me e vedo che il mio cuore è nero,
vedo la mia porta rossa e la voglio dipinta di nero
Forse svanirò via e non dovrò fronteggiare la situazione,
non è facile vivere a viso aperto quando tutto il tuo mondo è nero…»
E poi, anche una citazione d’autore: «I had to turn my head until my darkness goes», «Ho dovuto girare la testa, finchè la mia oscurità non sia svanita», dall’Ulisse di James Joyce.
Quando vanno a suonarla in tv, a Ready Steady Go! il 27 maggio 1966, il regista Michael Lindsay-Hogg dice a Jagger: «Perchè non immaginarti Lucifero mentre la canti?». A ogni strofa Jagger getta in aria le mani e si spegne una luce, alla fine – guardate il video – canta quasi nel buio, un ultimo faro in faccia, l’immagine che salta da una camera all’altra, mentre gli Stones continuano a suonare, Brian con suo sitar a gambe incrociate, gli altri che pestano sugli strumenti, Mick che va ad libitum, molto oltre la durata del brano. Un delirio. Gran pezzo di televisione, e forse il primo passo verso quella liason demoniaca che da ’Sympathy For The Devil’ in poi farà capolino in molti brani, e atteggiamenti, della band.
Se 14 pezzi possono riassumere, o almeno dare un’idea, del primo lustro degli Stones, “Big Hits” è una grande raccolta, anche se gli album, pieni di cover di r’n’b e blues e di pezzi minori che spesso non lo sono affatto, sono importanti. A me allora sembrava tantissimo, ma non sapevo tutto quello che sarebbe arrivato dopo, ancora meglio. A ruota ho amato “Between The Buttons”, 1967, un disco so very British, e tutto quello che è venuto dopo quel disco anomalo per loro, un po’ in scia della psichedelìa e degli eterni rivali, “Their Satanic Majesties Request”.
Ma “Big Hits” rimane come prima testimonianza (poi arriverà “Big Hits 2” per finire gli anni 60, “Hot Rocks 1&2” e altre compilation più comprensive) della abilità degli Stones si sfornare a getto continuo singoli che posso ancora cantare a memoria, che ancora custodisco e che, certo che sì, sono rimasti scolpiti nel mio immaginario. A quei tre minuti, cosa chiedere di più? Era solo r’n’r, non avrei mai pensato mi sarebbe piaciuto così tanto per altri 50 e passa anni.