Il pianista sensibileUna domenica al Vanguard con Bill Evans (e cinque concerti favolosi)

Le registrazioni complete del leggendario pianista jazz nel mitico club del Village. Storia di un’esibizione che allora passò sottotraccia, ma che è diventata una pietra miliare della musica improvvisata. Read & Listen

Bill Evans  “The Complete Village Vanguard Recordings, 1961”  2005

La cosa che mi ha colpito di più nell’ascoltare questo cofanetto triplo, che contiene tutti e cinque i set (due al pomeriggio, tre alla sera) che Bill Evans suona nel più famoso jazz club di NYC, aldilà della qualità stellare del trio, è l’ambiente. Nelle note di copertina il suo produttore Orrin Keepnews racconta come avesse piazzato il registratore Ampex portatile su un tavolino sotto il palchetto, e i microfoni avessero quindi ripreso perfettamente l’ambiente circostante: si percepisce l’intimità della scena, il piccolo club buio e fumoso, gente ai tavolini che chiacchera e tintinna i bicchieri, ride e scherza, e alla fine quegli applausi, che per quanto entusiasti non verranno da più di una decina, forse due, di spettatori. Un po’ sconcertante, per quello che viene considerato una dei massimi dischi jazz live, e non solo.

Testimoniano di come all’inizio degli anni 60, il pianista che si era da poco staccato dal gruppo di Miles Davis, con cui aveva inciso il fondamentale “Kind of Blue”, non godesse di star status né fosse ancora riconosciuto come indiscutibile maestro e capostipite a cui si ispireranno tutti i grandi pianisti che verranno, da Chick Corea a Herbie Hancock a Brad Meldhau, al Keith Jarrett del lavoro in trio con Gary Peacok e Jack De Johnette.

Probabilmente pochi dei presenti (non tutti i set, fra i 30 e i 45 minuti, erano sold out) erano consapevoli che quelle date del 25 giugno 1961 sarebbero rimaste come poesia e luce purissima nella storia del jazz. E il merito di questo, aldilà del tocco principesco di Evans, risiede nella connessione telepatica fra lui, Scott LaFaro al contrabbasso e Paul Motian alla batteria, e nell’eleganza minimalista dei tre, essenziale e ricchissima insieme. Un trio che raggiunge la vetta in due anni dalla sua nascita, e che non avrà mai la possibilità di bissarla, visto che dieci giorni dopo LaFaro morirà in un incidente stradale. 

Il risultato è questo cofanetto, che raccoglie tutte le 20 performance di 13 brani (e che quindi incorpora “Sunday at the Village Vanguard” e “Waltz for Debbie”, pubblicati allora come selezioni singole), che non solo è di bellezza abbagliante e romanticamente toccante, ma è anche un album che segna una fase nuova per l’idea di gruppo nei trio jazz: se fino ad allora il solista era la star assoluta e la ritmica il suo degno accompagnamento, Evans dà a LaFaro e Motian pari dignità e livello, e questo arricchisce enormemente la performance comune dandole, oltre al valore artistico in sé, anche un’importanza storica, uno snodo da vero game-changer per il jazz. 

Siamo dunque nel 1961, e per quanto Evans abbia solo 31anni, alle spalle ha già una vita. Dietro quell’aria così ordinaria, magrissimo, occhiali e brillantina da professore o da intellettuale della East Coast – certamente un eroe dal look improbabile e non solo nel mondo del jazz – Bill nasconde a quiet fire, un fuoco tranquillo, come soleva dire Miles Davis. Prologo a una vita di grande intensità interiore – come la sua musica, profondamente lirica – e allo stesso tempo totalmente autodistruttiva.

Nasce nel New Jersey, padre di discendenza gallese e madre di origini slave, che per proteggerlo dalla violenza domestica del marito lo porta spesso dalla sorella, dove ascoltando le lezioni del fratello più grande Bill rivela una predisposizione naturale. Comincia a prendere lezioni di pianoforte anche lui, a sei anni, suonando Mozart e Beethoven, Shubert e Stravinsky, studiando poi anche flauto e violino. Da teenager suona col fratello boogie woogie e polka alle feste e matrimoni, al liceo scopre il jazz delle big band e dei grandi del dopoguerra: Coleman Hawkins, Stan Getz, e due pianisti che saranno i suoi primi riferimenti, Bud Powell e Nat King Cole.

All’Università in Louisiana approfondisce gli studi di teoria musicale, porta alla vittoria la squadra di football giocando da quarterback, suona nella marching band e si diploma in pianoforte. Durante il militare le critiche al suo modo di intendere la musica gli creano una prima perdita di fiducia in sè e ne esce isolandosi nello studio e scrivendo per la nipote quello che rimarrà forse il suo brano più famoso, ‘Waltz for Debby’. 

Al congedo nel 1954 suona in una miriade di situazioni, finché arriva a New York suonando nel quartetto di Tony Scott e partecipando per un anno e mezzo a un master del Mannes College. È lì che incontra George Russell, pianista e studioso, che ha appena pubblicato la sua opera Lydian Chromatic Concept of Tonal Organization. Russell è il primo a strutturare una teoria dell’armonia in base al jazz e non alla musica europea che rivoluziona la tecnica di improvvisazione jazzistica. Anziché usare le scale tonali tradizionali, Russell introduce la scala Lidia e il concetto di ”modi musicali”, il cui risultato è una serie soluzioni più varie, che aprono le porte alla ”modalità” che caratterizzerà i lavori degli anni 60 di Miles Davis e John Coltrane. L’incontro con Russell, molto diffidente all’inizio, gli cambia la vita e lascia il teorico di stucco, come si fossero aperte le porte del Paradiso.

Due anni dopo, Evans pubblica il suo primo album “New Jazz Conceptions” dopo che un amico fa sentire al telefono una sua demo al riluttante produttore Orin Keepnews, e per il pianista si apre un mondo di collaborazioni: il Modern Jazz Quartet, Cannonball Adderley, Oliver Nelson, e un primo approccio al trio con LaFaro e Motian, “Portrait In Jazz”.

Poi arriva Miles Davis, interessato alle conoscenze di Evans nella musica modale che ha appena cominciato a sperimentare con “Milestones”. Visto il licenziamento del pianista del suo sestetto Red Garland, prima lo invita a suonare con lui una notte a Brooklyn, e la sera stessa lo invita a ritrovarsi per un altro concerto a Philadelphia e unirsi al suo gruppo: «Bill aveva questo fuoco tranquillo al pianoforte che amavo. La maniera in cui si avvicinava allo strumento, il suono che otteneva, era come note di cristallo o come acqua frizzante che scendeva lungo una cascata trasparente. Per lui, per adattarmi al suo stile più morbido, ho cambiato il suono del gruppo». 

Miles ha colto l’essenza di Bill Evans: non è un pianista trabordante, né muscolare, vive di raffinatezza, di tocchi, di atmosfere, di ricchezza interiore più che esteriore. Ha preso la lezione del pianista che l’ha più influenzato, Bud Powell, ma laddove questo è muscolare, fisico, irruento, Bill Evans è la personificazione della finezza. Di Evans, Miles apprezza anche la formazione musicale: «A parte Ravel, mi ha fatto scoprire Aram Khatachurian, compositore armeno, e gente come Rachmaninov, il pianista italiano Arturo Benedetto Michelangeli».

È la cifra che distingue Evans dalla maggior parte dei pianisti di jazz e non solo, la sua insaziabile voracità di influenze diversissime, quella che lo porta, in un periodo di crisi, a studiare il Clavicembalo Ben Temperato di Bach per migliorare la sua tecnica. Come osserva Ian Carr, leader del gruppo di jazz inglese degli anni 70 dei Nucleus e autore di una storica bio su Miles, «Bill Evans aveva studiato la musica per pianoforte dei compositori impressionisti francesi, e portava il suono degli accordi di Debussy a supporto delle sue linee melodiche, ricche e fluenti. Il suo lavoro ha una incredibile sensibilità e profondità, con la grande abilità di trovare la voce interiore degli accordi». 

Sul sito 100hundred greatestjazzalbums.com c’è una citazione delle note di copertina del critico Alun Morgan sull’album “Serenity” (concerto del ’72 pubblicato postumo nel ’93) in cui ben definisce l’essenza del suono di Evans: «La grande forza di Evans è nelle tinte armoniche con cui ammanta ogni brano. Era il musicista più sofisticato da un punto di vista armonico, nel senso che girava intorno agli accordi invece di esprimerli nella loro forza cruda come facevano i musicisti di bop. Evans era interessato alle armonie interiori degli accordi, passava con sensibilità da uno all’altro, dandosi una maggiore libertà in termini di note melodiche». 

Evans entra quindi nel quintetto di Miles, con al fianco Cannonball Adderley e John Coltrane ai sax alto e tenore e la ritmica di Paul Chambers e James Cobb, per quello che è il bestseller di jazz di tutti i tempi, “Kind of Blue”, per il quale curiosamente scrive anche le note di copertina, paragonando l’improvvisazione jazzistica all’arte giapponese del dipingere su una pergamena senza la possibilità di correggersi, guidati solo dalla disciplina dell’esprimersi connettendosi direttamente con la mano, senza che l’intenzione della mente possa interferire.

Aggiungendo che questo sia ancora più difficile a livello di gruppo, e raccontando di come Davis, proprio per questo, abbia portato direttamente in studio solo degli sketch di quello che avrebbero suonato, lasciando ognuno libero di creare. Il leader lo incarica anche di scrivere un brano partendo solo da due accordi, «che ci faresti con questi?» e il risultato, ‘Blue In Green’, sarà anche fonte di querelle fra i due: solo molto più tardi riconoscerà al pianista un co-credito sul brano. 

In realtà quando partecipa all’incisione, Evans – a cui la personalità evidentemente non manca – ha già lasciato dopo pochi mesi Davis, ha avuto una seconda fase di insicurezza e ha frequentato per questo uno psichiatra, e per un periodo si è ritirato in Florida con i genitori. Quando torna, è pronto per il suo percorso personale, ritrovando proprio quel formato che pensa sia l’ideale per lui. Il trio.

Paul Motian è il più anziano dei tre, quando si unisce a Evans ha già suonato con Monk, Coleman Hawkins e proprio con Tony Scott e George Russell. Il critico Michael Bailey su AllAboutjazz.com (gran sito per gli appassionati di jazz) lo tratteggia così: «Motian è un maestro dell’understatement e del colore. Non è invasivo, permettendo agli strumenti melodici di scorrere sopra le sue spazzole sul rullante e sui suoi piatti. Il suo modo di suonare con Evans potrebbe essere definito impressionista se un aggettivo del genere è applicabile al drumming jazzistico”.

Scott LaFaro è giovanissimo, 25 anni traboccanti di virtuosismo, di capacità compositiva, e riesce a dare alla musica introspettiva, a volte quasi meditativa di Bill un supporto e un contrappunto che la tengono sempre in quota, a volte spingendo, a volte duettando come due strumenti solisti. 

Miroslav Vitous, che nel decennio successivo sarà con Joe Zawinul e Wayne Shorter (due esuli dalla band di “In A Silent Way” di Miles) ai comandi dell’astronave Weather Report, considera “Sunday at the Village Vanguard” l’album che gli ha cambiato la vita: «Quando l’ho sentito è stata la mia più grande ispirazione, LaFaro la mia più grande icona. Il suo talento era fenomenale. Nei primi tempi del jazz il contrabbasso ha sostituito la tuba, e c’è voluto un pò prima che lo strumento prendesse un ruolo importante. Ma altrettanto importante era la comunicazione interna al gruppo: loro avevano una conversazione. Non la normale conversazione che si ha all’interno di un gruppo jazz, dove suoni i cambiamenti e hai una conversazione, come la chiamo io, a lato, da lontano. Sono stati i primi ad avere una conversazione seria. Neanche Miles ai tempi lo faceva. Sono stati i primi, grazie a LaFaro, una voce al pari di Evans. L’ha fatto un poco Duke Ellington con Jimmy Blanton, ma Blanton non aveva la tecnica per eseguirlo. Dopo, c’è stato Miles, nel quintetto con (il batterista) Tony Williams: vai in quella direzione, segui i cambiamenti, e se ti perdi lascia che succeda, lascialo andare. Nella sua biografia, Herbie Hancock ha scritto “non vedevamo l’ora di perderci!”. Appena questo ha iniziato a succedere, tutta questa musica ha iniziato a succedere. Appena non erano ingabbiati dagli accordi e dalla struttura del brano».

Fra “Portrait In Jazz”, fine dicembre 1959, ed “Explorations”, inizio 1961, il secondo e ultimo album che inciderà con con LaFaro e Motian in studio, Evans continua la sua attività di studio musician per altri, ma è con i due partner che dà il meglio di sè. Ma nonostante l’intesa musicale, c’è una tensione che Keepnews percepisce fra Evans e LaFaro: il bassista è infastidito dall’uso di eroina di Evans, che gli appare come un junkie poco affidabile.  

Quel ragazzo dall’aspetto impeccabile nasconde un segreto: ha conosciuto l’eroina nel periodo di Miles, ed è diventata una inseparabile realtà della sua vita. Se la porterà dietro per anni e anni, condividendo una vita focalizzata solo su quella con la prima moglie, una ex-cameriera e squillo occasionale, Ellaine, che per 13 anni sarà la sua devota compagna di anima e di vizio. Quando la lascia per la seconda moglie, Nenette, che gli darà l’unico figlio Evan, Ellaine svuota il loro conto in banca, si gioca tutto a Las Vegas e tornata a New York si suicida sotto un treno della metro.

Da una parte, c’è il poeta il cui abbandono e la cui dedizione alla musica è totale, una unione trascendente che lo spinge, lo motiva, lo tiene in vita: la posa sulla copertina di questo cofanetto, un uomo immerso nella sua tastiera, è un’immagine emblematica. Dall’altra, c’è un uomo tormentato, spirituale e insieme prigioniero dei demoni, che sfocia in un percorso ventennale di consapevole autodistruzione. Quando si libererà dell’eroina, con solo una piccola parte del fegato rimasta per via dell’epatite, entrerà in una dipendenza da cocaina altrettanto famelica che lo distruggerà definitivamente nel fisico, portandolo alla morte a soli 51 anni.

Keepnews, che conosce bene la situazione, intuisce che il rapporto con LaFaro potrebbe non durare, e spinge per un altro album, convincendo Bill che c’è il rischio di non avere una testimonianza della magia del loro affiatamento. Decidono quindi di registrare i concerti dell’ultima domenica di giugno 1961, ultima data delle due settimane della sua permanenza al Village Vanguard.

Se il jazz è un culto, il Village Vanguard è la sua chiesa. Aperto da Max Gordon nel 1935, è il più antico club di jazz del mondo, un basement sulla 7th Avenue nel Village, che può ospitare solo 132 persone. Ma non è solo l’intimità il suo segreto, anche l’acustica: come si legge su npr.com, non c’è una vera spiegazione tecnica, ma dovunque tu sieda – al bar, sotto il palchetto, lungo i lati – il suono è perfetto. Secondo il pianista McCoy Tyner, che nello stesso anno incide lì il “Live at the Village Vanguard” di John Coltrane, «in quel club, puoi sentire tutto», secondo Joshua Redman non c’è un’altra stanza al mondo che suoni così bene per il jazz.

Se alla morte di LaFaro Evans aveva scelto come omaggio di concentrare in “Sunday at the Village Vanguard” i brani scritti dal bassista o quelli nei quali il suo ruolo risaltava, e tenere nel successivo “Waltz For Debbie” quelli più ‘di gruppo’, la versione integrale dei cinque set si svolge in ordine cronologico. Se si guarda ai 20 brani, si nota subito come firmato da Evans ci sia solo quel brano deliziosamente frizzante scritto per la nipote Debby. Molti sono ripresi dal Great American Songbook, quel misto di temi da Broadway o di musical o di musica leggera d’autore, composizioni di grande successo popolare e diventate spesso anche classici sia del pop che del jazz. È musica gradevole e orecchiabile anche se piuttosto sofisticata, e potrebbe a un ascolto superficiale essere scambiata per un jazz easy listening. In realtà, come è stato sottolineato, il modo di Evans di ricostruire armonie navigando fra gli accordi eleva queste performance ben oltre la piacevolezza, che a una prima lettura sicuramente c’è.   

Cominciamo alti, con ‘My Man’s Gone Now’, dal “Porgy and Bess” di George & la moglie Ira Gershwin: l’interpretazione modale, quel ritornare sull’accordo minore di base della melodia è fascinoso e melanconico, ogni tanto si sente la cascata di note frizzanti che ritornano subito al tema, mentre Motian sotto spolvera il rullante con le spazzole e LaFaro dialoga con Evans. Si girano intorno, poi uno sopra l’altro sotto, senza che ci sia mai un distacco, perfettamente fusi insieme. C’è un secondo brano dall’opera, la title track ‘Porgy (I Love You, Porgy)’, la melodia molto riconoscibile che danza senza sforzo mentre le note scivolano in mezzo agli accordi, LaFaro che sostiene e Evans che va, prima lento, poi swingante quando entra anche Motian, chissà cos’è che suscita tutti quei commenti sottovoce. 

‘My Romance’ dal musical “Jumbo”, sempre 1935, firmato dai celebri Rodgers & Hart, altro classico (da Dave Brubeck ad Art Blakey con Keith Jarrett, da James Taylor a Carly Simon) è puro swing, il trio in perfetto equilibrio finchè LaFaro non si prende lo spazio per un assolo molto melodico mentre Evans sotto dipinge piccoli tocchi sulla tela, e poi si ondeggia di nuovo fino alla fine.

Ci sono due brani di Miles: ‘Milestones’ e ‘Solar’, i primi esperimenti con il modale di Davis, in entrambi l’energia è alta, la ritmica si fa sentire, su ‘Milestones’ Motian spinge sorretto dal contrabbasso, dita che pizzicano velocissime le orde tesissime, è Scott il solista, mentre Evans torna di continuo sull’accordo base. La rilettura di ‘Solar’, scrive Thom Jurek su AllMusic.com, «è un luogo dove l’angolarità, il contrappunto e il primo modale si sommano in un’estetica post-bop, in cui il dialogo armonico è interattivo e insistente». Di ‘Detour’ Jurek scrive: «C’è una sorta di costruzione impressionista nella sua architettura armonica che parte dai registri medi e va più profondamente nelle sue sonanze per permettere di mettere in moto numerosi frammenti melodici contemporaneamente». Nel jazz, tecnica e complessità espressiva contano.

Il ‘Waltz for Debby’ è una delizia di melodia e di grazia, potrebbe rimanervi in testa a lungo, e altrettanto gradevole scorre ‘Alice in Wonderland’ e ‘Some Other Time’ di Leonard Bernstein. Sempre dal grande canzoniere americano Evans estrae ‘All Of You’ di Cole Porter, interpretato da Fred Astaire nel musical “Silk Stockings”, e rifatta da un who’s who che va da Anita O’Day a Ella Fitzgerald, da Frank Sinatra a Tony Bennett, da Billie Holiday alla versione di Miles su “Round About Midnight”. Quando il brano (nella take #2) prende ritmo diventa davvero una danza alla Astaire in cui succede di tutto, virtuosismi e interplay, gli strumenti si rincorrono, giocano finchè uno splendido assolo di basso prende la scena e la parola, come fosse una narrazione, corde pizzicate a velocità impressionante al posto delle parole, mentre Motian leggerissimo fruscia a tempo sullo sfondo, un bicchiere tintinna e Bill pausa, probabilmente in ammirazione anche lui, per poi rientrare con delicatezza con alcuni accordi leggeri e swinganti insieme, come quelle cascate di note di cui parlava Miles. Magnifico.

I due brani composti da Scott LeFaro aprono e chiudono i cinque concerti: il primo,’ Gloria’s Step’ (ripetuta tre volte come ‘All Of You’, non a caso entrambe gli highlights della giornata) ha una melodia sontuosa, con le performance di contrabbasso e pianoforte che si intrecciano, si scambiano ruoli e si supportano a vicenda in maniera memorabile. Ricca di quella finesse che è il tratto distintivo di questo concerto e di tutta la carriera di Bill Evans, evidenzia il rapporto empatico che si sublima in questo album, triangolo di bravura e reciproca comprensione.

Chiude il terzo disco una doppia versione di ‘Jade Visions’, nella quale il clima rimane sobrio, quasi scuro, molto meditativo, interiore, senza risoluzione nè in swing nè in ritmo. Sembra davvero una riflessione sui misteri della vita e del suo termine, che purtroppo per quello che Vitous definirà «uno dei grandi bassisti Ventesimo secolo» terminerà presto, di notte, su una strada statale del New Jersey.

Anche se poi c’è un finalino scherzoso. Si sente Keepnews che gli dice, a un metro di distanza, «Hey Bill, c’è ancora un po’ di nastro rimasto, perché non fai «Quanto ce n’è?».
«Saranno un 30 secondi…». E Bill suona, a velocità supersonica, una musichetta da Carosello. Si termina ridendo, la giornata è stata lunga e davvero proficua, ne sono consapevoli tutti. 

Evans, commenterà: «Devo ringraziare di aver inciso quel giorno, l’ultimo che avremmo suonato con Scott. Quando hai fatto evolvere in questa maniera il concetto del suonare insieme che dipende dalle specifiche personalità di musicisti straordinari, come si ricomincia quando non ci sono più?». 

E infatti sarà per lui molto dura, una depressione lo allontanerà dal suo indispensabile pianoforte per molti mesi. La sua carriera continuerà fino al 1980, sempre in trio ma con look ben diverso, capelli lunghi e barba, con la stessa gigantesca passione e serissima compostezza dal vivo, anche se i picchi raggiunti con questo trio saranno difficili da ritrovare. 7 Grammy su 31 nomination e un Lifetime Achievement Award postumo testimoniano, se ce ne fosse bisogno, della sua importanza nella storia del jazz.

Nella prefazione di ‘Il grande Amore – Vita e Morte con Bill Evans’, libro-diario molto emotivo dei due anni che passa con lui Laurie Verchomin, la giovane canadese ultima amante dell’artista ormai sull’abisso della irrefrenabile e lucida auto-distruzione, John Mclaughlin, che sarebbe entrato nella band di Miles Davis qualche anno dopo di lui, Evans lo racconta così: «Amavo Miles anche prima di “Milestones”, ma con Bill fu vera magia. Sono rimasto folgorato non solo dalla musica, ma dall’atmosfera, dalla vibe profondamente spirituale che la musica di quest’album esprime. Bill mi aveva veramente sconvolto. La sua delicatezza era aldilà di forza o debolezza, e trovavo il suo senso del fluire del tempo davvero incredibile. Bill possedeva molte chiavi, che erano fuse nel suo immenso talento e nella sua anima. Riuscivano a sbloccare nel profondo il cuore degli ascoltatori, consentendo loro di entrare in un mondo di bellezza trascendente, di intensità dirompente, permettendo a ciascuno di scoprire la propria anima. E così raro che ciò accada».  

Michael Bailey chiude la recensione di questa riedizione integrale del 2005 con parole di rispetto e d’amore: «La natura essenziale di questa musica è difficile da sovra-stimare o da non descrivere in maniera iperbolica. Come le 29 composizioni di Robert Johnson o il Clavicembalo Ben Temperato di Bach, non dovrebbero essere considerati solo capolavori musicali ma capolavori culturali. Finalmente e appropriatamente, quella giornata è stata ricostruita come meritava, una giornata dopo la quale nulla sarebbe stato più lo stesso».

PS
Non ho trovato film di questo trio in concerto. Questo lungo clip di un’ora e mezzo è una preziosa e imperdibile panoramica di tutta la sua carriera, dal 1964 al 1975.
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