I know what I likeL’ultima tessera del domino dei Genesis è quella che ci serviva

Cronaca di una passione sconsiderata e della tappa di Boston del tour finale di una band leggendaria che ha dato lustro al rock progressive, prima di scegliere la strada del pop con cui ha scontentato i fan della prima ora conquistandone di nuovi. Sul palco del Garden le due anime della loro scatola musicale si sono finalmente ricongiunte e hanno fatto pace

(Linkiesta)

Sono uno di quegli sfortunati appassionati dei Genesis, dei Genesis di Peter Gabriel, dei veri, unici Genesis, che per ragioni anagrafiche non li ha mai visti dal vivo in concerto, perché Peter ha lasciato il gruppo simbolo del prog-rock quando avevo sei anni. Senza Peter Gabriel, i Genesis hanno pubblicato un album bello, A trick of the tail, un fantastico live, Seconds out, due dischetti appena accettabili, durante i quali hanno perso anche il chitarrista Steve Hackett e “sono rimasti in tre”, fino alla svolta pop e commerciale guidata da Phil Collins che li ha fatti diventare superstar globali. 

Duke, uscito nel 1980, è stato il primo album con cui si è compiuta la trasformazione musicale dei Genesis che ha allontanato i disperati fan della prima ora, soprattutto italiani, ma che ha reso la band enormemente popolare, soprattutto in America. 

I nostalgici come me hanno cominciato a detestare Phil Collins, a considerarlo una disgrazia epocale o un’invasione imprevista di cavallette, lo Yoko Ono dei Genesis. 

La passione di noi fanatici si è trasferita senza pudore su Peter Gabriel, sui suoi avveniristici dischi solisti, sui progetti world music, sui concerti spettacolari che finivano regolarmente con il tuffo sulla folla al momento di Lay your hands on me e con l’epica di Biko, fino alla sua formidabile partecipazione a Sanremo quando si lanciò con la liana sulle teste degli assessori e dei funzionari Rai presenti all’Ariston per poi atterrare di schiena contro una cassa posizionata al lato del palco.

Di Peter Gabriel ci piaceva tutto, la faccia pittata, i video innovativi, i saltini a piedi uniti nei concerti, ma anche quella volta che prestò a Claudio Baglioni la sua band (Tony Levin, Manu Katché, David Rhodes, David Sancious) per registrare Oltre e a maggior ragione quando nel 1988 salvò il cantante romano sul palco dell’Human Rights Now tour a Torino, improvvisando con lui “Ninna nanna, nanna ninna”.

Di quello che combinavano i residui Genesis non ce ne importava nulla, semmai trovavamo ristoro nei Marillion, la band più genesiana dell’epoca post Genesis, o nei progetti nostalgici sempre più macchinosi di Steve Hackett.

In realtà, anche se a scriverlo adesso mi pare di bestemmiare, Duke è un gran bell’album, davvero bello, se ascoltato senza pregiudizi. Qua e là, inoltre, bisogna ammettere che qualche bel pezzo dei Genesis si trova, come per esempio nel disco Genesis giallo del 1983, quello di Mama e Home by the sea.

Certo, niente di paragonabile alle atmosfere incantate e fiabesche, barocche e gotiche, ai madrigali e alle pastorali, ai Father Tiresias, ai Mister Lewis e agli Harold the Barrell, o alle suite infinite alla Supper’s ready (forse i 23 minuti-sintesi della musica dei Genesis) dei primi formidabili album, da Trespass a The Lamb lies down on Broadway, con l’apice inarrivabile di Selling England by the pound e senza dimenticare né Nursery Crime né Foxtrot di cui peraltro nel 2022 si celebra il cinquantenario. 

Quando i Genesis hanno annunciato il nuovo ultimo tour, ultimo nel senso che difficilmente ce ne sarà un altro (per capirci: si intitola The Last Domino tour), ho pensato fosse doveroso andare a vederli. Sarebbe stata l’ultima occasione possibile e si meritavano rispetto e riconoscenza. Soprattutto non mi sembrava tollerabile che non avessi mai visto dal vivo il mio gruppo preferito, dato che mi sono sempre rifiutato di partecipare all’impostura dei concerti che celebravano l’era pop anziché quella progressive della band. 

Con un amico, fanatico quanto me dei Genesis di Peter Gabriel, abbiamo così deciso di comprare i biglietti per andare a vedere l’11 dicembre Collins, Mike Rutherford e Tony Banks al Barclays Center di Brooklyn, dove qualche anno fa ho visto uno dei concerti più emozionanti della mia assidua carriera di frequentatore di arene, teatri club e stadi: il tour antologico con cui gli Who hanno celebrato il cinquantesimo anniversario del loro primo concerto in America. I Genesis antologici e finali sarebbero stati alla stessa altezza degli Who, almeno questa era la mia speranza.

Senonché i Genesis hanno cancellato la nostra data, come era già successo in precedenza, a causa del Covid, in un paio di città europee. Testardi nel voler compiere la missione, abbiamo riconvertito i biglietti per la data del 15 dicembre a Boston, anzi a Baaast’n come da leggendaria pronuncia dell’americanista Bonetto nella Donna della Domenica di Fruttero e Lucentini. Un’occasione, anche, per mangiare il più buon lobster roll della città. 

In viaggio verso Boston, mi è però venuto il dubbio che io, in realtà, i Genesis una volta li avessi visti. Forse. No, ne ero quasi certo. Ma possibile che non ricordassi niente di quel concerto?

Qualche anno fa ho fotografato i biglietti dei concerti visti nella seconda metà degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta e che ho conservato come memorabilia personale. Sono andato a cercare sull’iPhone ed ecco spuntare il dimenticato biglietto del 19 maggio 1987 a San Siro per i Genesis, il cui opening act, per capirci, era Paul Young, quello di Everytime you go away. 

Non ricordo niente di quel concerto e andando a cercare su Internet la set list della serata ho anche capito perché: quella sera, Phil Collins e compagnia hanno suonato solo le canzonette nuove, con l’eccezione di In the Cage («I got sunshine in my stomach»), in gran parte pezzi orrendi del loro album inascoltabile di quell’anno, Invisible Touch. Deve essere stato un dolore fitto, che mi è tornato nel leggere la scaletta del 1988, ma evidentemente guarito grazie alla totale rimozione dalla memoria dell’evento. I know what I like (and I like what I know), come da titolo del loro primo singolo di successo, conosco che cosa mi piace e mi piace che cosa conosco: se suona pregiudiziale è perché è davvero il principio del pregiudizio o delle moderne bolle social.

Era questo il mio stato d’animo prima di entrare al Boston Garden per assistere al Last Domino Tour: sarà una delusione come nel 1987, mi chiedevo, oppure un’epifania come l’apparizione degli Who al Barclays center? 

Un altro amico, che si è aggiunto al volo dopo aver già visto una data precedente al Madison Square Garden e con cui condivido un’altra insana passione per Frank Zappa, mi ha assicurato che sarebbe stata un’esperienza mistica che, appunto, lui era pronto a rivivere. 

I posti in platea erano favolosi, nella dodicesima fila del campo dei Celtics gremito da ventimila persone. In realtà avevamo acquistato due seggiolini più indietro, ma con un’abile manovra da street figther italiani abbiamo adocchiato su Ticketmaster alcuni posti davanti ancora invenduti, abbiamo avviato il processo di acquisto ma senza concluderlo e ci siamo piazzati in quella vicinissima fila dodici del settore A del Garden.

Spentesi le luci, Banks e Rutherford, come sempre impassibili e quasi scocciati di tutta quella ressa, sono saliti sul palco. 

Dietro di loro, si è visto un signore minuscolo, con la schiena piegata, che avanzava lentamente aiutandosi con un bastone da un lato e dall’altro appoggiandosi a un assistente. Era Phil Collins, irriconoscibile, una versione smagrita e anziana di Lucio Dalla o di Oscar Giannino, costretto a stare seduto su una poltrona girevole, anziché ad armeggiare dietro la batteria, affidata invece a suo figlio Nick. 

L’ingresso in scena da ospizio più che da concerto rock mi ha ricordato uno degli ultimissimi tour dei Jethro Tull, nel 1988, con Ian Anderson che giocava sul fatto di essere ormai anzianotto e per questo si faceva accompagnare da due badanti che lo portavano in sedia a rotelle al centro del palco, mentre alle spalle si apriva uno striscione che annunciava «Oh no, altri vent’anni con i Jethro Tull». E lui, a quel punto, si alzava come un miracolato per suonare il flauto nella sua gloriosa postura su una sola gamba.

Collins invece non scherzava, faticava davvero a raggiungere la poltroncina a rotelle. La catastrofe a quel punto mi è sembrata inevitabile. Poi è cominciata la musica, ed è stata tutt’altra storia.

I Genesis hanno attaccato con tre pezzi potenti di Duke, Behind the Lines, Duke’s end e Turn it on again. La voce di Collins era sostenuta da due coristi, ma quell’anziano e fragile signore in poltroncina girevole, le cui smorfie erano ingigantite sullo schermo del palco, non era lì a fare presenza, non aveva nessuna intenzione di prestarsi a una triste operazione nostalgia né a destare la compassione nei fedeli. 

Il suo sforzo sembrava immane, ma Phil Collins c’era, guidava la band con precisione e il pubblico con allegria e cantava con una presenza scenica invidiabile, considerata la posizione rannicchiata. A poco a poco, i Genesis hanno cominciato a fare sul serio: prima con una sorprendente versione di Mama, poi con un paio di brani progressive dell’era commerciale e, a tradimento per noi nostalgici, con The Cinema Show da Selling England e Afterglow da Wind and Wuthering. 

Ma è stata la sezione centrale a rendere il concerto memorabile. Questa parte è cominciata con una versione acustica e raccolta di The Lamb lies down on Broadway, che ci ha fatto sospirare per l’intollerabile assenza fisica del protagonista Rael, ovvero Peter Gabriel. È continuata con una versione strumentale di Firth of Fifth, con l’avvio del pianoforte di Banks e il lungo assolo della chitarra, e poi con una larga e bellissima I know what I like, prima di un finale invece non all’altezza del resto, ma preparatorio di un encore da far piangere, chiusosi con Dancing with the Moonlit Knight («Can you tell me where my country lies?») e con Carpet Crawler che ha trascinato l’arena bostoniana a cantare assieme a Phil Collins «We got to get in, to get out». Dovremmo adottarla come inno della Juventus, ho detto all’amico di fianco per provare a asciugare i lucciconi, ci tocca qualificarci alla prossima Champions, se vogliamo farci sbattere fuori e non vincerla nemmeno il prossimo anno.   

Che grande concerto. È stato come se le due anime musicali del Genesis, quella progressive e quella pop, si fossero per la prima volta riconciliate alla fine di una lunga incomprensione.

Cosi siamo usciti felici dal Garden, con quelle musiche meravigliose ancora nel cervello. Anche adesso che scrivo.

Al bicchiere della staffa, in un bar della North End, dopo aver progettato di rivederli a Berlino o a Wembley a primavera, sempre che i tre resistano, siamo tornati su Ticketmaster e abbiamo comprato i biglietti per il concerto di Steve Hackett che ad aprile rifarà tutto Seconds Out al Beacon Theater di New York.

Ora tocca al nuovo disco di Peter Gabriel, finalmente pronto dopo millemila anni. Ma il sogno dei cultori della scatola musicale dei Genesis resta quello in cui i tre reduci e i due “absent friends”, tutti insieme, tornano a suonare e a cantare insieme: Reunion’s ready.

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