I MelettazL’asse tra Enrico e Giorgia per rilanciare la vocazione minoritaria del Pd e consegnare l’Italia ai sovranisti

Per Meloni ormai sono come «Sandra e Raimondo». Secondo Concita De Gregorio somigliano più a una «versione senior dei Ferragnez». Ma per i democratici non dovrebbe essere una novità: è la strategia del 2008, e finì malissimo (non solo per loro)

di Belinda Fewings, da Unsplash

Giorgia Meloni dice che ormai lei ed Enrico Letta sono «come Sandra e Raimondo». Concita De Gregorio scrive su Repubblica che semmai sono «la versione senior dei Ferragnez» (io direi piuttosto junior, ma è questione di punti di vista). Una cosa comunque è sicura: nell’evidente e reiterato gioco della legittimazione reciproca tra i Melettaz, due leader uniti da un comune obiettivo, andare al voto in uno schema bipolare-maggioritario, non c’è niente di nuovo e ancor meno di imprevedibile. Siamo alla fine del 2021, al secondo anno di pandemia e nel pieno della quarta ondata, ma a giudicare dalle mosse del Pd sembra proprio di essere tornati agli ultimi mesi del 2007.

Ancora una volta, proprio come allora, il nuovo segretario del Partito democratico ritiene più conveniente andare alle elezioni anticipate, con un sistema elettorale che premia le coalizioni, pur non disponendo di una coalizione, quindi sicuro di perdere, piuttosto che continuare a sostenere una formula di governo che considera un peso. Ricorda niente?

Certo, è possibile, sebbene niente affatto scontato, che il Pd riesca ad allearsi con il Movimento 5 stelle. Del resto, anche il Pd di Walter Veltroni, alle elezioni del 2008, finì per presentarsi con quella sorta di Movimento 5 stelle uno punto zero che fu l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro. In ogni caso, è indubbio che una parte almeno di quanto il mini-centrosinistra Pd-M5s guadagnerebbe dal lato populista lo perderebbe dal lato riformista. Verosimilmente, più dei voti attualmente accreditati a Italia viva o Azione (sicuramente almeno uno in più, non avendo io mai votato per nessuno dei due). Uno squilibrio che certo non sarebbe bilanciato dalla probabile partecipazione degli sparsi spezzoni di Liberi e Uguali (Sinistra italiana e Articolo Uno, nel frattempo già liberatisi gli uni degli altri, ma certo pronti a riunirsi in vista della soglia di sbarramento).

Non farò a Letta il torto di pensare che il suo unico movente sia la possibilità di essere lui a fare le liste elettorali e di ritrovarsi comunque, grazie al cosiddetto voto utile (favorito proprio dall’assenza di una coalizione di centrosinistra vera e propria), con un risultato tale da fare del Pd il principale partito dell’opposizione, e del medesimo Letta il suo leader incontrastato. Che è più o meno il senso della famigerata strategia del «doppio colpo in canna» teorizzata nel 2007 da Goffredo Bettini. Per la cronaca, il risultato, allora, fu che si spararono entrambi i colpi sul piede: Silvio Berlusconi ottenne infatti alle elezioni una maggioranza spropositata (tanto che nemmeno la scissione finiana bastò a disarcionarlo da Palazzo Chigi, e ci volle lo spread alle stelle e il rischio di bancarotta), mentre la leadership di Veltroni nel Pd arrivò a stento all’anno successivo.

È evidente che per Letta la scelta in favore del maggioritario e della competizione bipolare non è frutto di un calcolo tattico, ma di sincera e appassionata convinzione (che è molto peggio). «Il gioco di Meloni è quello di avere una destra agganciata all’Europa che va al governo in quanto tale, non con accordi spuri, che chiede i voti in quanto destra con i suoi valori. Voglio fare la stessa cosa dall’altra parte», ha detto il segretario del Pd alla festa di Fratelli d’Italia, due settimane fa. E ancora: «Io vado al governo se vinco le elezioni, non ho l’idea di andare al governo sempre». C’è poco da dire: i Melettaz sono proprio una coppia perfetta (e forse è anche un bel segno dei tempi che il ruolo di «junior partner», in entrambi i casi, tocchi al maschio).

Per quanto riguarda Letta, ormai è inutile meravigliarsi, o fare il gioco delle contraddizioni con il passato (e per molti versi anche con il presente). Quel che dovrebbe preoccupare non sono infatti le contraddizioni, ma la coerenza, e la chiara intenzione di proseguire come se niente fosse lungo la stessa strada del 2008. Perché dall’altra parte non c’è il centrodestra berlusconiano di allora, che peraltro, ripetiamolo un’altra volta, ci portò sull’orlo della bancarotta. C’è un centrodestra a guida nazional-populista, in cui a contendersi la leadership sono Giorgia Meloni e Matteo Salvini.

Nel 2022 saremo ancora, purtroppo, nel pieno della pandemia, nel pieno della battaglia per cambiare le regole di bilancio in Europa, nel pieno della battaglia per realizzare gli investimenti – e le connesse riforme – del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Possibile che nel Pd non ci sia più nessuno in grado di capire cosa significhi, in un contesto simile, consegnare una maggioranza spropositata e di fatto quasi senza contrappesi, anche per effetto del taglio populista dei seggi parlamentari, a Meloni e Salvini, vale a dire ai migliori amici di cui dispongano oggi in Italia i peggiori nemici della democrazia liberale nel mondo, come Viktor Orbán e Donald Trump?

Se il Partito democratico ha deciso di giocare alla roulette russa con il futuro dell’Italia, che almeno ci risparmi una campagna elettorale sui valori dell’antifascismo e i diritti delle minoranze.

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