Ho visto per la prima volta Gianni Celati in occasione di un’edizione del Festivaletteratura di Mantova. Credo fosse il 2001, giusto vent’anni fa, quando era da poco uscito il suo libro di racconti “Cinema naturale”, pubblicato da Feltrinelli. Durante quell’incontro aveva letto uno dei racconti presenti nel volume. Già questa era una scelta inusuale, dato che gli incontri di Mantova sono per lo più pensati con un intervistatore che fa domande allo scrittore.
Al termine della lettura – anche qui la prassi prevede che al pubblico venga data facoltà di avanzare domande – Celati aveva detto qualcosa del tipo: «Ora dovrei rispondere alle vostre domande, ma vi pregherei di non farne». Nessuno tirò su la mano, Celati si alzò e se ne andò, e l’incontro terminò. Penso che nessuno tra il pubblico se ne sia risentito: il gesto poteva apparire come un capriccio da primadonna.
In realtà, il garbo usato da Celati, il tono e il modo sincero con cui aveva avanzato la sua richiesta, ebbero l’effetto contrario. Spesso si dice che se ti piace uno scrittore devi evitare di conoscerlo perché rimarresti deluso. Celati rappresenta un’eccezione. Guardarlo, sentirlo parlare o solamente leggere, non fa che aumentare la stima che si prova nei suoi confronti.
Tutto questo per dire che tra il Celati persona e il Celati scrittore probabilmente non c’è soluzione di continuità. La ricerca della sincerità e dell’onestà, di una genuinità non semplicistica, il tenersi alla larga dalle convenzioni romanzesche, vale per la vita di tutti i giorni che per quanto scrive nei libri: «Vorrei che tutto apparisse meno romanzesco possibile, perché non se ne può più di questa vita da romanzo a cui dovrebbe somigliare anche la nostra. Giorno per giorno la vita passa e basta».
La persona e la scrittura di Celati sono vere, nel senso di distanti anni luce da artificiosità truffaldine e furberie. E tutto questo lo si può affermare anche per il suo cinema: ne abbiamo ulteriore conferma grazie a un documentatissimo e importante libro che ogni “celatiano” dovrebbe leggere e possedere, scritto da Gabriele Gimmelli e dal titolo “Un cineasta delle riserve. Gianni Celati e il cinema” (Quodlibet, 2021).
Autore di pochi film – l’esordio dietro la macchina da presa avviene nel 1991 con “Strada provinciale delle anime“, a cui seguono “Il mondo di Luigi Ghirri” (1999), “Case sparse. Visioni di case che crollano” (2003) e “Diol Kadd. Vita, diari e riprese in un villaggio del Senegal” (2010) – quello di Celati, come spiega anche Gimmelli, è un cinema unico, perché prima di tutto imprevedibile e inclassificabile. Non si può dire che le sue opere siano documentari puri oppure film di finzione, sono l’una e l’altra cosa insieme: «Non credo molto ai documentari, perché l’idea che le immagini ti mostrino davvero come è fatta la realtà appartiene a un modo di pensare che non è il mio. […] Non mi trovo a mio agio con l’idea di fiction, perché questa comporta una necessità d’illusionismo che non sopporto».
Questo cortocircuito fra realtà e finzione è ben rappresentato dalla scelta di Celati di mostrare spesso nel loro farsi le sue opere cinematografiche: «Mettetevi in posa… fate finta di essere voi stessi!», dice il direttore di produzione in “Strada provinciale delle anime” al gruppo di attori improvvisati. In questa scena, come in tantissime altre, è emblematico il tentativo di confondere i piani e sabotare l’impressione di realtà che può avere lo spettatore.
Volutamente, mentre si guardano i suoi film, non si sa dove la costruzione narrativa stia andando, cosa stia succedendo e cosa ci sia da aspettarsi. In questo loro incedere erratico i documentari di Celati sono assimilabili ai suoi libri e tale aspetto (l’erraticità) è un elemento portante della sua poetica. Lo spiega lui stesso in un discorso contenuto nel volume “Studi d’affezione per amici e altri” (Quodlibet, 2016), in cui parte dalla prosa leopardiana, «che non è mai una linea retta, ma linea erratica e frammentaria», che «ci toglie da sotto i piedi la pretesa dei fondamenti, dei valori che hanno fondamenti, perché nel suo girovagare te li ribalta in superficie», per delineare una tradizione che da Leopardi arriva fino a Giorgio Manganelli, Antonio Delfini, Daniele Benati, Ermanno Cavazzoni e altri frequentatori di questa “riserva” di cui ovviamente Celati è parte.
Il libro di Gimmelli, oltre a raccontare la genesi e il contenuto dei quattro film realizzati, riunisce una miniera di informazioni e di dettagli sui progetti sperimentali e in un certo senso amatoriali, oppure sui progetti che non sono mai stati realizzati, sulle influenze di Celati, dalla slapstick comedy a Michelangelo Antonioni, Wim Wenders e Werner Herzog. Perché il cinema di Celati è ricchissimo di contenuti, idee, fonti d’ispirazione, livelli di lettura e significati, ma per realizzarlo ha scelto un approccio dilettantesco, non incline ai virtuosismi, che sfugge alle categorizzazioni.
Come ha detto Ermanno Cavazzoni qualche settimana fa in radio, i film di Celati sono come una gita, che si fa con i propri cari, durante la quale ci si guarda attorno e le cose accadono. Lo sguardo che Celati getta sui luoghi è alieno da qualsiasi sociologismo. “Case sparse” è una ricognizione di case di campagna in rovina, straziate dal tempo e dall’abbandono, una riflessione sul tempo che scorre, che ben poteva prestarsi a una interpretazione di rimpianto per la vita contadina e di elogio per la tradizione, l’identità e le radici. Ma così come il «fate finta di essere voi stessi» sparigliava le carte, una scena tra Alfredo Gianolio e Daniele Benati ristabilisce le giuste distanze da facili letture, luoghi comuni, giudizi univoci e da una volontà di esternare che a volte, invece, dovrebbe farsi da parte e lasciare spazio al silenzio:
Gianolio
Quando hanno cominciato questo film, hanno fatto molte interviste nelle campagne, per sapere cosa pensa la gente delle case che crollano. Dalle interviste è saltato fuori che gli intervistati prendevano degli atteggiamenti, come posso dire.
Benati
Un po’ falsi. Parlavano di identità, di memoria, di radici.
Gianolio
E mostrano un rimpianto per i tempi delle nonne.
Benati
È solo un atteggiamento culturale perché nessuno sa cosa dire di quelle rovine.