Per quanti considerano prioritario evitare che l’Italia sia travolta dai contagi durante la pandemia e che vada in bancarotta un minuto dopo, quindi un’esigua minoranza, a giudicare dal dibattito di questi giorni, c’è solo uno scenario peggiore dell’ipotesi che Mario Draghi lasci la guida del governo per andare al Quirinale. Ed è che non ci riesca, dopo averci provato.
Di conseguenza, coloro che nei diversi partiti condividono quella semplice scala di priorità – non finire come il Brasile di Bolsonaro con il virus né come l’Argentina con il debito – devono parlare adesso, e devono farlo il più chiaramente possibile.
È vero che solo pochi giorni fa un simile soprassalto di lungimiranza sembrava avere finalmente prevalso: uno dopo l’altro tutti i principali leader politici, da Enrico Letta a Matteo Salvini, da Silvio Berlusconi a Giuseppe Conte, avevano espresso in qualche modo una preferenza per la permanenza di Draghi a Palazzo Chigi. Ma dalla semplice lettura dei giornali appare evidente che non è bastato.
A questo punto non ha neanche molto senso mettersi a fare l’esame delle dichiarazioni di ciascuno, a soppesare aggettivi e retropensieri. Forse è venuto il momento che a parlare non siano soltanto i leader.
Come dimostrano anche i ripetuti incidenti parlamentari degli ultimi tempi, qualunque accordo è a rischio e nessun nome, neanche il più prestigioso, è al di sopra del timore di elezioni anticipate e del desiderio di rivalsa di un larghissimo numero di grandi elettori, in buona parte sicuri della propria non rielezione, per l’effetto combinato del trionfo populista del 2018 e del taglio populista dei seggi del 2019.
Se Draghi ritiene o è stato indotto a ritenere che per lui possa essere una passeggiata, c’è da augurarsi che abbia fatto bene i conti. Ma se qualcuno nella maggioranza, al momento decisivo, pensa di sfilarsi, farebbe bene a dirlo subito chiaro e tondo, prima che il presidente del Consiglio si esponga in alcun modo, per essere poi eventualmente costretto a una tardiva marcia indietro, uscendone comunque indebolito.