La storia infinita del fascismo italiano, quello attuale e grottesco ed erede tragicomico di quello storico, è stata svelata ad Atreju, alla festa politica di Fratelli d’Italia ispirata fin dal nome al protagonista di un polpettone fantasy per adolescenti, in particolare per adolescenti rimasti tali una volta diventati personalità politiche.
Alla kermesse dei vecchi patrioti (i nuovi patrioti, secondo una celebre definizione del Corriere della Sera, sarebbero invece quelli che dai Cinquestelle a D’Alema hanno sventato il tentativo di riforma costituzionale di Renzi), ha partecipato il segretario del Pd Enrico Letta con uno slancio di apertura agli avversari inaspettato da chi predica il campo largo ma non risponde a Carlo Calenda, da chi offre cena e pernottamento strategico ai populisti a Cinquestelle ma vuole annientare quel che è rimasto del renzismo, da chi – appunto – lancia allarmi quotidiani contro la deriva falangista della destra italiana e poi si presenta al campo hobbit dei neo, ex, post fascisti.
Sono tempi impazziti, in cui non si bada più nemmeno alle forme: nel giorno del cinquantaduesimo anniversario della strage di Piazza Fontana, il paese che non manca mai di fare esercizio di antifascismo militante pende dalle labbra di Giorgia Meloni, la donna, madre e cristiana che, anche con la testimonianza di un presepe vivente, tiene viva la fiamma che scalda i cuori dei nostalgici e dei nuovi balilla che tirano pietre alla democrazia liberale, questa volta non contro l’impero austro-ungarico come il prode Giovanni Battista Perasso che da due secoli illumina le gesta delle gioventù fasciste, ma di concerto con il boss antidemocratico ungherese Viktor Orbán.
Meloni ha tuonato contro la democrazia parlamentare, come una Casaleggio qualsiasi ma in formato analogico, e ha rilasciato patenti di suprematismo patriottico con linguaggio anni Trenta di quando c’era Lui o della ruggente epoca in cui covava il Piano Solo. Il sottotesto di Meloni è che chi non è patriota è un traditore della patria, un agente straniero, un apostata. Su Draghi, Meloni sospende il giudizio: «Non so se sia patriota», dice, ma aggiunge anche che «Palazzo Chigi è di fatto l’ufficio stampa dell’Eliseo, mentre Letta è il Rocco Casalino di Macron», cosa che magari Letta prende come un complimento, anche se non per Macron ma per il riferimento a Casalino.
Fatti i complimenti a Letta per essere andato a casa Meloni, colpisce come la pochezza intellettuale dei Fratelli d’Italia sia talmente evidente da rendere banale, anche se tecnicamente esatta, la famosa citazione di Samuel Johnson secondo cui il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie.
Più interessante è provare a comprendere le mosse di Enrico Letta, volte ad andare a votare il prima possibile in alleanza con il populismo di sinistra contro l’estremismo di destra, provando a vincere oppure, dovesse andare male, a controllare i prossimi gruppi parlamentari e a sbarazzarsi dei seccatori che propongono di fare politica.
La legittimazione lettiana di Atreju è figlia di un piano strategico preciso, quello di ricordare che l’Italia è destinata allo scontro tra opposti estremismi come quelli di una volta e per questo necessita di liberarsi di chiunque proponga uno schema alternativo, meno novecentesco e più contemporaneo, e di rimuovere dal campo di gioco uno come Mario Draghi che, da solo, può far saltare il progetto.
Il raffinato ragionamento lettiano non tiene conto che i compagni di strada di questa lotta antifascista, talmente farsesca per cui si va a parlarne ad Atreju nell’anniversario di Piazza Fontana, sono stati sovranisti quanto e più di Salvini, antidemocratici quanto e più di Orbán e illiberali quanto e più di Meloni.
La partita italiana, invece, è contro il bipopulismo perfetto italiano e Mario Draghi è colui che può vincerla, ma a patto che il Pd giochi nella squadra giusta e non sprechi tempo con lo stravagante Piano sòla con i balilla di Atreju e i manganellatori di Bibbiano.