«Di chi è la colpa» – senza punto interrogativo perché la risposta è inconoscibile – è l’ultimo romanzo, un capolavoro, di Alessandro Piperno. Di chi è la colpa se la vita è andata così, se una cosa è successa o non è successa. Di chi è la colpa se il passato è rimpianto, se il presente è quello che è, cioè niente di particolare, di chi è la colpa dei nostri peccati, e dei peccati altrui.
Piperno, filosofo come solo i grandi scrittori sanno essere, qui vira su un nichilismo lucido, consapevole, se si può dire così. Se il gran personaggio di Francesca (un’Albertine piperniana) non avesse scelto quello che scelse, al Narratore forse la vita sarebbe andata meglio, o forse no, ma di chi è la colpa dei crimini e misfatti in un mondo senza Dio, pur nella folla di cristiani ed ebrei, se in questa storia tutto è sbagliato eppure vicinissimo dall’essere giusto: e Piperno ci dice che la ricerca, qui a differenza dell’amato Proust, è vana.
Fino all’ultima riga, si brancola letteralmente tra le tombe cercando una spiegazione che non c’è. Chiuso il libro, di chi è la colpa se siamo tutti sempre più agitati, di chi è la colpa se i problemi invece di risolversi si aggrovigliano, se il Paese si arrampica su speranze come spuntoni di roccia ma con le mani sudate proprie di chi è teso, stanco, disilluso.
Il romanzo di Piperno riposto nella libreria ci guarda lasciandoci l’inquietudine dei cieli annuvolati: non sentiamo la stessa angoscia dinanzi all’inspiegabile di oggi di cui la pandemia è il simbolo macabro? Di chi è la colpa, appunto, di un pipistrello o un altra bestiolina lontana, non lo sapremo mai, e non ci resta che continuare a cercare altrove, come talpe nella sabbia.
Di chi è la colpa della crisi di una democrazia che non riesce a convincere i tassisti di Roma o i portuali di Trieste a vaccinarsi contro la malattia, di chi è la colpa di un sistema informativo e mediatico che confonde le menti, pasticcia con le notizie, non discerne più il corretto dallo scorretto ma anzi fa a gara nel mescolarli nel frullatore per masse già appesantite da un’epoca così faticosa.
Di chi è la colpa di una politica che si perde in chiacchiere e si chiude nel Castello kafkiano della tattica invece di andare con semplicità e ragionevolezza a eleggere un buon presidente della Repubblica e contemporaneamente a garantire la vita di un governo serio come pochi altri.
Piperno esamina come un viaggiatore mai appagato i recessi dell’anima, qualsiasi cosa voglia dire questa parola, scruta nella memoria l’affastellarsi incongruo di pulsioni compresi, eccome, momenti di non trascurabile felicità – persino di amore – come seguendo il corso di un fiume che finisca in un rigagnolo nel deserto: la sua è una antropologia un po’ rousseauiana, nella traiettoria che va dal buon selvaggio alla lotta sociale, una visione pessimistica e come sospesa tra ineluttabilità del male e ansia del bene. Ma appunto, scendendo dai cieli della letteratura, qui e ora, il bene del Paese qual è?
Un tempo tutti avevano una risposta, per i comunisti la fiducia nel sol dell’avvenire, per i democristiani un quieto vivere nel rispetto di certi valori religiosi, per la destra una brama di ordine e disciplina sotto l’occhio dello Stato. Adesso ’anche meno”, come si dice oggi. In teoria ciò che residua dai vecchi opuscoli, come chiamava Cechov i libelli politici, quello che più o meno discende dalle idee di una volta dovrebbe bastare a rimotivare il popolo, ma il problema è la confusione delle parole (le «pistole cariche» di Sartre), la debolezza culturale dei politici, la preponderanza degli interessi di partito: lo vediamo bene, e anzi moltiplicato all’ennesima potenza, nei talk show ove dilaga la nevrastenia di personaggi che cercano di dare un senso alla propria faziosità.
Di chi è la colpa se il presente sembra sempre peggio del passato, contraddicendo tutta la migliore filosofia moderna, di chi è la colpa se l’Italia sta sempre per fare il salto per poi ogni volta retrocedere nel gorgo.
All’alba del nuovo anno rischiamo – diciamo la verità, sentiamo approssimarsi – condizioni peggiori, finanziamenti che sfumano, riforme che restano sulla carta, istituzioni sempre meno efficienti, allargamento della distanza tra élite e popolo come nell’Italietta dei primi del Novecento, più antipatica, meno colta, ancora più nervosa e divisa. Speriamo di no ma questo rischio c’è. Lo capiremo prestissimo, a partire da come finirà la storia del Quirinale e quella connessa del governo.
I partiti, o quel che resta dei partiti, hanno l’enorme responsabilità di fare scelte assennate e coraggiose, mettendo al primo posto ciò che conviene al Paese, cioè la continuità di un’azione di governo positiva e senza alternative all’altezza. E non vorremmo domandarci, tra dodici mesi, di chi sarà stata la colpa di un clamoroso capitombolo politico e morale.