Battaglia di civiltàMezzo secolo di diritti lgbti in occidente e (un po’ meno) in Italia

Nel 1971, due anni dopo i moti di Stonewall, nasceva a Torino il Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano. Da allora in Europa, in America e in altre parti del mondo molti Stati hanno garantito sempre più tutele giuridiche alla comunità arcobaleno. Il nostro Paese è rimasto qualche passo indietro. Da Linkiesta Magazine in edicola, in libreria o su Linkiesta Store

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Cinquant’anni fa nasceva a Torino, grazie all’ispirazione di Angelo Pezzana, il FUORI! o Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano. Fondamento e inizio dell’attuale movimento Lgbt+ nel nostro Paese, esso, per quanto esauritosi nel 1982, costituì la prima realtà militante di gay e lesbiche a livello nazionale (imperdibile il librone di 500 pagine curato da Carlo Antonelli e da Levi’s, “Fuori!!! 1971-1974”, che riproduce i primi tredici numeri, della rivista.

Sorto nel solco di movimenti esteri come, ad esempio, il Gay Liberation Front (GLF) nel Regno Unito, il Front homosexuel d’action révolutionnaire (F.H.A.R.) in Francia o il Mouvement homosexuel d’action révolutionnaire (M.H.A.R) in Belgio, il FUORI!, al pari degli altri, affondava pur sempre le sue radici ideali in quei recenti moti di Stonewall (28 giugno – 3 luglio 1969) che diedero il via a una reazione di orgogliosa visibilità di sé e di collettiva rivendicazione di pari diritti.

Fine, quest’ultimo, che, volendo fare un bilancio a cinquant’anni dalla fondazione del FUORI! e dall’inizio del movimento nostrano, è stato perseguito in Italia con magri risultati legislativi, anche se di peso. In dieci lustri, infatti, sono soltanto due le leggi a tutela delle persone Lgbt+ che si è riusciti a ottenere: la 164/1982 sulla rettificazione anagrafica di sesso per le persone trans e la 76/2016 sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso. È inoltre vietata dal 2003 la discriminazione per orientamento sessuale sul lavoro, essendosi dovuta recepire e attuare la direttiva comunitaria 2000/78 del Consiglio d’Europa con decreto legislativo. Grazie, infine, al cosiddetto “decreto Veronesi” del 5 luglio 2001, che ha revocato il divieto vigente dal 1984, i maschi omosessuali e bisessuali possono donare il sangue, anche se nella pratica una tale facoltà è esercitata a discrezione dei centri trasfusionali.

In cinquant’anni la società italiana si è indubbiamente evoluta in tema di rispetto dei diritti e piena uguaglianza delle persone Lgbt+: incontrovertibile al riguardo il contributo dell’attivismo e di manifestazioni rivendicative dell’orgoglio come i Pride, che, al di là di annue polemiche confessionali e politiche, fanno oramai parte della nostra cultura.

D’altra parte, i sondaggi condotti dai principali istituti di ricerca mettono in luce come l’opinione pubblica italiana sia divenuta nel tempo sempre più aperta alle istanze di lesbiche, gay, trans, bisessuali e, spesso, in modo addirittura maggioritario: si pensi al contemporaneo caso del ddl Zan contro omotransfobia, misoginia, abilismo, alla cui approvazione, poco prima cioè della bocciatura autunnale in Senato, il 62 per cento continuava a dirsi favorevole, secondo un’indagine Demos.

Ma è in pari tempo innegabile il persistere d’una mentalità stigmatizzante delle persone Lgbt+, che nella lunga stagione del Covid s’è concretata in un aumento di violenze domestiche e aggressioni pubbliche verso le stesse. A mantenere in essere e favorire il fenomeno è la dimidiata tutela dei diritti di gay, lesbiche, trans, bisessuali, che vede da anni l’Italia agli ultimi posti tra i 49 Paesi di Europa e Asia Centrale monitorati da Ilga-Europe. Nella “Rainbow Europe Map 2021”, diffusa in maggio dall’importante organizzazione, l’Italia è al trentacinquesimo posto, tra Lituania e Moldavia, con un indice del 22,33 per cento in relazione a norme e politiche per le persone Lgbt+.

D’altra parte, il nostro Paese è l’unico dei sei Stati fondatori dell’Unione europea a non avere una legge anti-omotransfobia: tra i 27 Stati membri condivide l’assenza normativa sul contrasto dei crimini d’odio per orientamento sessuale soltanto con Bulgaria, Repubblica Ceca, Lettonia e Polonia. Quelli, invece, per identità di genere sono perseguiti legalmente in ben 13 Paesi Ue: Belgio, Cipro, Croazia, Francia, Grecia, Finlandia, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Spagna, Svezia, Ungheria. Quest’ultima, in realtà, sotto la guida di Viktor Orbán ha assistito, in poco più di un anno, a una progressiva erosione dei diritti e delle tutele delle persone Lgbt+ a colpi di provvedimenti.

Basti soprattutto citare la normativa antipedofilia in vigore dall’8 luglio, che, esemplata sulla legge russa contro la propaganda omosessuale, «vieta di rendere accessibili a persone di età inferiore ai 18 anni contenuti pornografici o che ritraggono la sessualità in modo gratuito o che rappresentano e promuovono la divergenza dell’identità [di genere] dal sesso assegnato alla nascita, il cambiamento di sesso e l’omosessualità».

Al di là di tutto, larga parte degli Stati dell’Europa e delle Americhe, i più importanti Paesi dell’Oceania e Israele – unico in Medio Oriente con una legislazione pro-Lgbt+, al centro però di vivaci polemiche all’interno degli stessi movimenti internazionali – sono riusciti da Stonewall in avanti a garantire sempre maggiori tutele giuridiche alla comunità arcobaleno e a sancire, in alcuni casi, una piena uguaglianza.

L’Italia, come s’è visto, ha ancora tanto da fare al riguardo. E non si tratta solo di contrasto e prevenzione delle violenze e discriminazioni omotransfobiche. Ma anche di matrimonio egualitario, dal momento che col referendum elvetico del 26 settembre il Bel Paese è sempre più distante dal resto dei Paesi dell’Europa occidentale. Paesi, cioè, che – a eccezione di Andorra, del Liechtenstein, di San Marino e, ça va sans dire, della Città del Vaticano – hanno tutti esteso le nozze a ogni coppia.

©️2021 The New York Times Company and Francesco Lepore. Distributed by The New York Times Licensing Group

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