I conti in tascaLa spesa pubblica è l’elefante nella stanza della riforma fiscale

Il taglio dell’Irpef accontenta formalmente tutti i partiti della maggioranza, ma rischia di non avere un grande impatto sulla crescita. Affidare la spending review alla prossima legislatura è solo un modo per spostare un problema che prima o poi dovrà essere risolto. L’editoriale dell’Istituto Bruno Leoni per Linkiesta

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Il governo non ha fatto in tempo ad annunciare la proposta di riforma dell’Irpef che già il paese si è diviso. C’è chi plaude alla riduzione del numero di aliquote e della pressione fiscale. C’è chi protesta per la scelta di allocare il tesoretto da 8 miliardi di euro praticamente solo sull’imposta sul reddito delle persone fisiche, ignorando le richieste delle imprese. C’è chi si lamenta per il preteso effetto regressivo del taglio. Al momento, però, è davvero troppo presto per esprimere un parere: conoscere le aliquote e gli scaglioni non basta a capire l’effetto complessivo della riforma. Per avere un’opinione è necessario anche sapere se e come saranno riordinate le innumerevoli deduzioni e detrazioni che rendono così inintelligibile il nostro sistema tributario.

Si possono, però, formulare tre considerazioni. La prima: il taglio è, nel complesso, modesto. Nel 2019 (ultimo anno prima della pandemia) il gettito Irpef è stato di circa 192 miliardi di euro: in pratica, ci stiamo accapigliando su una riduzione di poco superiore al 4 per cento. Meglio di niente, ma certo non in grado di sortire chissà quali effetti sulla crescita. Da questo punto di vista, non hanno torto gli industriali quando chiedono di stanziare più risorse su tributi di minore entità (come l’Irap) in modo da segnare una vera discontinuità. Da questo punto di vista, è positivo che si parli seriamente dell’abolizione dell’Irap quanto meno per le ditte individuali e i professionisti.

La seconda considerazione è che Draghi sembra aver seguito una logica molto politica: ha individuato il tipo d’intervento che formalmente accontentava tutti, e sostanzialmente lasciava chiunque insoddisfatto. Così, ai fautori della flat tax ha offerto l’eliminazione di un’aliquota; ai sostenitori della redistribuzione ha dato un’operazione che si focalizza sui redditi medi. Inoltre, ha svolto il compito in modo (almeno per quanto si può giudicare adesso) tecnicamente corretto: senza creare effetti perversi sull’andamento delle aliquote marginali, e facendo in modo che tutti i contribuenti vedano calare le pretese del fisco, seppure impercettibilmente (e al netto degli eventuali cambiamenti alle detrazioni e deduzioni).

Sempre sul piano politico, però, questo intervento non è neutrale nella forma: la revisione delle aliquote rappresenta, in qualche modo, un anticipo della più ampia riforma fiscale oggetto di una delega presentata dal governo ma ancora non approvata dal Parlamento. L’implicazione è che si consente, ad esempio, alle parti sociali di discutere dell’intervento come se avesse natura congiunturale mentre – se posto nella prospettiva della revisione del sistema – dovrebbe avere ben diverso orizzonte.

La terza considerazione è che, però, la riforma ignora completamente l’elefante nella stanza: la spesa pubblica. La rinuncia a mettere ordine nella spesa rappresenta la scelta più critica dell’attuale governo, il quale ne affida la revisione alla prossima legislatura e, nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, si limita ad accendere un cero agli dei della crescita. Insomma: sebbene formalmente la copertura arrivi dalla buona performance economica del 2021, nei fatti essa attinge al debito. E si tratta di una scelta tanto più pericolosa quanto più prendiamo sul serio l’ondata inflattiva che si sta abbattendo su di noi.

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