Mettiamo che durante una partita a poker ci sia sul tavolo un piatto molto ricco e che uno dei giocatori per una serie di ragioni contingenti decida di bluffare. Per riuscire nel suo intento e per convincere gli altri giocatori a passare, egli deve adottare una tattica spericolata ma coerente fin dalle prime mosse (i rilanci, il cambio delle carte, dichiararsi servito, ecc.).
Per vincere la mano e incassare il piatto deve far prevalere negli avversari (anche se hanno un discreto punto) il dubbio che il suo sia imbattibile sul corrispondente dubbio che si tratti di un bluff. Quindi deve andare fino in fondo: più alza la posta più diventa credibile e più induce gli avversari a non rischiare il fatidico «vedo» che lo troverebbero in braghe di tela.
Con questa metafora abbiamo descritto la linea di condotta di Silvio Berlusconi nella partita del Quirinale.
Prima di procedere però è necessario un chiarimento: il piatto sul tavolo, che il Cav vuole incassare (attraverso un grande bluff di portata storica), non è la presidenza della Repubblica per se stesso, ma la possibilità d’indicare il candidato vincente. In breve, Berlusconi sa di non poter diventare il king; il suo obiettivo è quello, più limitato, di essere il kingmaker.
Ma come potrebbe svolgere questo ruolo (che per lui avrebbe il senso di una rivalsa dei torti subiti) se non attraverso la strategia che sta seguendo con grande sprezzo del pericolo? Potrebbe sedersi intorno a un tavolo e concordare con gli altri leader un candidato che sia di suo gradimento? Non sarebbe in grado di farlo neppure con i suoi tradizionali alleati; figuriamoci con gli avversari.
Per di più ha capito che le maggiori ostilità verso Mario Draghi stanno a sinistra. Non ha dovuto neppure servirsi d’informazioni riservate perché alcuni di quella congrega lo hanno ammesso esplicitamente: Goffredo Bettini lo ha spiegato in un saggio di 15mila battute, mentre a Massimo D’Alema è bastato estrapolare una frase da una risoluzione della III Internazionale.
Dal canto suo Enrico Letta se la è cavata con un classico: ’’O Franza o Spagna’’ con quel che segue. In una delle sue ultime dichiarazioni sull’argomento il leader del Pd (un Gianni Brera redivivo lo soprannominerebbe «l’Abatino») ha affermato di non essere né d’accordo né contrario a eleggere Draghi al Quirinale.
Ma diciamoci la verità: la sinistra vuole servirsi dell’ex presidente della Banca centrale europea come garante dell’operazione PNRR, ma troverebbe molto scomodo tenerlo al Quirinale per sette anni, con l’affitto bloccato, mentre da Palazzo Chigi potrebbe essere trasferito tra le riserve della Repubblica con un voto del Parlamento.
Il Cav ha capito il gioco degli avversari e si è convinto che non toccava a lui rimettere in gioco Draghi. E ha compiuto una mossa molto intelligente, dal suo punto di vista: mentre il presidente del Consiglio dichiarava nella conferenza stampa rivelatrice la sua disponibilità, che, in ogni caso, vi sarebbe stato, anche dopo di lui, un governo sostenuto da una maggioranza più larga possibile, Berlusconi lo ha rinchiuso in quel perimetro, lasciando intendere che, andando al Quirinale, Draghi avrebbe avuto nei fatti la responsabilità di porre fine alla mission che gli era stata affidata. Simul stabunt, simul cadent.
Tornando al Cav di queste ultime ore, come potrebbe avere quel potere contrattuale che rivendica senza mettere in gioco la sua persona? Facendo trapelare una sua esplicita candidatura costringe il centrodestra a una scomoda solidarietà almeno per un certo numero di votazioni. Giorgia Meloni e Matteo Salvini non credono che il Cav riesca a farcela (anzi sperano di no), ma non si sa mai; da lui ci si può aspettare di tutto.
Quanto agli avversari bisogna che si prendano paura; e ciò può riuscire solo se nei primi scrutini a maggioranza assoluta, il Cav ottenga e confermi una solida maggioranza relativa. A quel punto – di fronte alle reazioni inconsulte dei suoi avversari che sciorinerebbero tutti gli argomenti della disperazione – Silvio Berlusconi potrebbe compiere il beau geste: ritirare la propria candidatura e proporne una non divisiva.
Chi potrebbe opporsi ai nomi di Giuliano Amato o di Franco Frattini, in quel momento ambedue al vertice delle massime istituzioni giudiziarie e corredati di curricula di assoluto prestigio? Il fatto è che per ottenere questo risultato il Cav deve mettercela tutta perché gli avversari credano che faccia sul serio e vada fino in fondo. E per essere ancora più convincente deve appiattirsi sulla caricatura che in tanti anni i suoi nemici gli hanno cucito addosso: quella del trafficante, del corruttore, del cacciatore di voti senza scrupoli, pronto a sfruttare tutte le altrui debolezze umane pur di raggiungere i suoi fini malefici.
Deve fare telefonate notturne, rimettere in circolazione Valter Lavitola a organizzare cene e quant’altro possa servire a rinfocolare la miscela di odio e terrore che incute da quando è sceso in politica. Ma Berlusconi deve fermarsi al momento giusto, prima che la paura nei suoi confronti non raggiunga quota 90 e i suoi avversari non trovino un momento di lucidità per reagire.
Perché esiste un modo per far saltare i piani del Cav, se dovesse esagerare. Basterebbe convincere Sergio Mattarella ad accettare un secondo mandato. Una proposta di questo tipo lascerebbe Berlusconi in mezzo al guado e lo costringerebbe a tirare i remi in barca prima di aver portato a termine il suo progetto.