Dovrebbe sorprendere che il candidato di bandiera della destra italo-orbaniana, ora confluito nella terna di nomi proposti dalla coalizione Lega-Forza Italia-Fratelli d’Italia, sia un’icona del garantismo mediatico-giudiziario come Carlo Nordio.
Ma forse, approfondendo le caratteristiche dell’icona – della persona, non ci permetteremmo – che lo stesso ex magistrato veneziano ha pazientemente e sapientemente costruito in decenni di attività pubblica, giudiziaria ed extragiudiziaria, la scelta di Giorgia Meloni e dei suoi alleati risulta meno sorprendente di quanto appaia.
In modo sintetico, si può dire che Nordio ha reso presentabile il garantismo a geometria variabile che per un quarto di secolo il centro-destra italiano ha declinato in termini classisti e (non solo etnicamente) razzisti, tra forche erette a furor di popolo per i criminali – i drogati, i clandestini, le zingaracce, i recidivi – e garanzie riconosciute come meritato privilegio per le persone dabbene.
Si tratta di un garantismo a misura di quella teoria del diritto penale del nemico, che esclude un’uguaglianza di diritti, pur a fronte dell’uguaglianza dei doveri, per quanti si ritengano irreversibilmente incompatibili con le regole del patto sociale condiviso e quindi immeritevoli di garanzie riservate ai cittadini e non – appunto – ai loro nemici. Insomma, la giustizia vale per i buoni; per i cattivi, si ragiona solo in termini di sicurezza.
Questa scissione – ripetiamo: razzistica – tra giustizia e sicurezza e tra i soggetti della prima (i cittadini) e gli oggetti della seconda (i nemici) ha reso possibile alla destra italiana alternare citazioni di Beccaria e retoriche da Casa Pound, denunciare le gogne contro gli inquisiti e sobillare le piazze contro gli immigrati e i delinquenti, piangere lacrime dolorose per le vittime innocenti della giustizia e lanciare campagne minacciose sulla tolleranza zero.
Nordio non ha mai detto le infamie e le fregnacce di cui la destra italiana ha infarcito il suo garantismo censuario e il suo giustizialismo securitario, ma l’ha accompagnata e legittimata con una pubblicistica sempre più comprensiva, quando non direttamente militante, tra riconoscimenti pubblici al garantismo di Salvini e allarmi accorati per l’insicurezza percepita dall’opinione pubblica, fino al sostegno diretto alle misure simbolo della stagione del Capitano al Viminale, cioè i decreti sicurezza e la legge sulla legittima difesa.
La destra italiana – accodandosi al garantismo certo opportunistico, ma non così discriminatorio del primo Berlusconi – ha sempre ritenuto che le garanzie processuali fossero una sorta di galateo e di salvaguardia per i buoni cittadini, e non l’applicazione all’interno dei processi di un sistema di diritti riconosciuti alle persone, in quanto persone, anche, anzi soprattutto, fuori dai processi.
Quindi non ha avuto mai né remore, né inibizioni a chiedere galere senza chiavi di uscita, a maledire la scarcerazione dei delinquenti (cioè di accusati, non condannati, ma con la faccia o l’immagine sociale dei delinquenti), a citofonare ai presunti colpevoli per chiedere loro se spacciavano droga, a invocare l’affondamento dei barconi e a confondere i disgraziati con gli scafisti, a chiedere dalla poltrona del Viminale l’arresto di questo e di quella, e a chiedere quella pulizia, che in Italia, da qualunque parte venga rivendicata, è l’anticamera della barbarie del diritto, prima che della giustizia.
A questa destra Nordio ha offerto una consulenza per così dire tecnica, prestandole parole di cui almeno non vergognarsi, ma aggravando l’equivoco che il garantismo fosse quella roba lì e che dalla crisi della giustizia italiana si sarebbe potuti uscire così.
Ovviamente, nel suo garantismo stagionale – a seconda del tempo politico che fa e se sui suoi “assistiti” piova e ci sia il sole – Nordio in questi ultimi anni è stato anche capace di formidabili distrazioni, come quando, malgrado gli esordi pirotecnici della legislatura, ha scoperto con molti mesi di ritardo l’obbrobrio dell’abolizione della prescrizione. Appena dopo che il Capitano, che l’aveva scambiata con altri obbrobri nel suq giustizialista del governo Conte I, ha iniziato a bisticciare con gli alleati grillini.
A questo porta la logica dei buoni e dei cattivi a prescindere: che nei processi e in politica si finisce per assolvere o condannare qualcuno per quello che è, non per quello che fa. Quindi Salvini sull’abolizione della prescrizione è innocente perché è Salvini e Bonafede è colpevole perché è Bonafede.