Nei giorni scorsi il caso Djokovic ha scatenato le reazioni del governo di Belgrado, a partire dal presidente della Repubblica Aleksandar Vucic, che ha definito il tennista vittima di «una caccia alle streghe politica». Gli hanno fatto presto eco il capo del governo serbo Ana Brnabic, che ha garantito il pieno sostegno dell’esecutivo serbo all’atleta, e il ministro degli Esteri Ivica Dacic, secondo cui la questione potrebbe compromettere i rapporti tra Serbia e Australia.
È facile intuire che questa storia non riguardi solamente la partecipazione di Novak Djokovic all’Australian Open. C’è qualcosa di più dietro tutto questo.
È un discorso che parte dalla Serbia stessa, intesa come Stato-nazione, che si basa largamente sull’identificazione con il suo tennista, di gran lunga lo sportivo locale di maggior successo degli ultimi anni: la figura di Djokovic ha acquisito fondamentale importanza per l’opinione pubblica serba, in questi anni in cui le altre discipline maschili più tradizionali del Paese (calcio, pallavolo, basket e pallanuoto) stanno affrontando periodi difficili.
Djokovic è diventato un simbolo patriottico, in un Paese che non si è ancora del tutto ripreso dalla profonda crisi d’identità degli anni Novanta e delle guerre etniche nei Balcani.
Il grande equivoco della Serbia contemporanea, infatti, è proprio nel suo rapporto con quel periodo e con i crimini di cui, spesso, i militari serbi sono stati accusati a livello internazionale. La stessa Ana Brnabic, per esempio, nel 2018 sostenne in un’intervista rilasciata alla tv tedesca Deutsche Welle che il massacro di Srebrenica non potesse essere definito un vero e proprio genocidio. D’altronde il leader del suo partito Aleksandar Vucic aveva detto in parlamento, poco dopo l’eccidio nella città bosniaca, che «per ogni serbo ucciso, moriranno cento musulmani».
Dal 2014, la Serbia è governata da esponenti del Partito Progressista, una formazione politica nazionalista e conservatrice – molto vicino al partito Russia Unita di Vladimir Putin – che nelle ultime due tornate elettorali ha conquistato da sola oltre il 48% dei voti.
Insomma, la Serbia di oggi è un Paese di destra, con una base profondamente nazionalista, in cui la politica fa leva sul sentimento identitario ogni volta che può: in assenza di altri simboli, il campione di tennis numero uno al mondo è un facile alfiere di questi valori. Anche perché lui stesso ha dimostrato di poter – e voler – ricoprire questo ruolo.
Djokovic non parla frequentemente di politica, anzi a maggio aveva detto di volerne restare fuori, aggiungendo che secondo lui «la vera democrazia non esiste più da anni». Ma molto spesso le sue dichiarazioni extra-sportive hanno fatto discutere, come ad esempio le sue bizzarre teorie new age sulla possibilità di purificare cibo e acqua tossici grazie «alla preghiera e al potere della gratitudine». E non dovrebbe stupire più di tanto che, per questa sua sensibilità scientifica, si rifiuti di vaccinarsi contro il Covid-19.
Non parla spesso di politica, ma la politica parla spesso di lui. Talvolta addirittura con lui: lo scorso settembre il tennista è stato fotografato a un matrimonio accanto a Milan Jolovic, un ex-braccio destro di Ratko Mladic durante il massacro di Srebrenica, e al leader separatista serbo-bosniaco Milorad Dodik, uno che sostiene che quel genocidio addirittura non è «mai avvenuto».
Nel 2008, quando il Kosovo dichiarò la sua indipendenza dalla Serbia, Djokovic si recò a Mitrovica per incontrare la popolazione serba locale ed esprimere il proprio supporto alla loro causa, e tre anni dopo confermò a Der Spiegel di ritenere il Kosovo territorio serbo. Che Novak Djokovic sia un nazionalista sembra abbastanza ovvio, ma a scanso di equivoci può far comodo sapere che è così che lo ha definito suo padre Srdjan.
Un’altra cosa significativa che ha detto il genitore – no, non il paragone tra suo figlio e Gesù – è che lo stop alla frontiera australiana è un’aggressione alla nazione stessa, perché «Novak è la Serbia e la Serbia è Novak». Probabilmente solo un’altra frase fanatica, dettata da un momento di grande tensione, ma che ribadisce nella maniera più chiara possibile l’identificazione reciproca tra il Paese e lo sportivo. Ci sarebbero anche gli estremi per ipotizzare un futuro presidenziale per Djokovic, specialmente se il clima non dovesse cambiare.
«Non è capace di immaginare sé stesso – spiega il giornalista bosniaco-americano Aleksandar Hemon – all’infuori di questa identità nazionalista. Penso che sia sintomatico di una generazione di questa regione, che è totalmente incapace di vedersi e comprendere la propria identità oltre al più semplice e stupido contesto nazionalista». In questo, Novak Djokovic conferma una volta di più di essere l’incarnazione stessa della Serbia, nel bene e nel male.