Ripubblicare Fabrizia Ramondino e a partire da “Guerra di infanzia e di Spagna” è una bella intuizione editoriale e un’occasione per discorrerne. Porta infatti su di sé una coltre di letture legate al suo percorso esistenziale e alla sua attività politica. È quella maledizione dello scrittore che è il dato biografico, che diventa soverchiante quando entrano in campo le soi-disant scienze umane: le malattie della Modernità. Fabrizia Ramondino scrittore è tutto quel che sta sotto la coltre.
Tanto per cominciare è parte della generazione di scrittori venuti dopo lo splendore di quella dei nati negli anni Venti – Sciascia, Calvino, Pasolini, Parise, Manganelli – e di quella tutta femminile e luminosa degli anni Dieci – Elsa Morante, Anna Maria Ortese, Natalia Ginzburg: come a dire, un fronte ampio e presidiato in bellezza. (Silvio Perrella la dice la Generazione Invisibile, e non senza ragioni di buona lega). Inoltre viene a esordire alla vita sociale e letteraria durante gli anni in cui entrano nella lingua termini e locuzioni delle scienze sociali e della analisi psicologica, e survoltati dalla attività politica, a sua volta portatrice di barbarità lessicali e non solo. Insomma, non un momento favorevole per una voce letteraria.
(L’unico che non solo riuscirà a uscire dall’invisibilità ma pure a dar vita a un bel movimento e non solo letterario è Gianni Celati, e gli allora Ragazzi della via Emilia. Celati è parte di quella alta tradizione di réfractaire che sono riparo alla gnagnera. Ma di Celati e la sua avventura parlerò a suo tempo, per bene).
Fabrizia Ramondino è uno scrittore notevole e come tale sa cosa le appartiene, per intuito – certo sapeva che il romanzo non le era congeniale. “Guerra di infanzia”, così come “Althénopis”, non è un romanzo: è un libro di narrazioni, un’opera di mosaico. Questo il primo punto. Il secondo è che il mosaico di narrazioni è perfetto, anzi, è emblema delle facoltà espressive di lei; e sono facoltà subito in vista, già nell’incipit, ironico nell’esibire tono da romanzo e un timbro di voce (e l’occhio) che dice altro. «Era il 13 febbraio del 1937. Il console Luigi Ferdinando Baldaro si accingeva a partire per la Spagna per prendere servizio a Maiorca. / Dipinta di bianco e di azzurro, una corvetta, nel porto di Napoli, si infingeva sonnacchiosa come una nave da crociera; ma con potenti motori truccati conduceva in realtà a Maiorca la famiglia del console e un gruppo di consulenti e di spie. / Con i piedi calzati in eleganti scarpette verdi e marroni dal tacco altissimo, già sulla scaletta, la moglie del console si chinò a prendere dalle braccia della balia asciutta la bambina; la donna era infatti diritta impalata sulla banchina e non la porgeva». Si potrebbero scrivere pagine già del solo incipit: mi fermo all’essenziale: il tono sostenuto subito affilato d’ironia, e il timbro di voce, singolare assai: un sosiego dolcissimo e fragile. Una giovin signora che passa in punta d’impertinenza e lieve.
La narrazione viene dalla voce in prima persona della figlia del console, la bambina nelle braccia della balia dell’incipit, detta Titita, che rievoca molti anni dopo, ormai donna (e scrittore), la sua infanzia a Minorca fino ai sette anni, al rientro in Italia dopo l’armistizio del 1943. Lo si potrebbe dire il preludio a “Althénopis”, e con ragioni. (Peraltro Guerra d’infanzia viene pubblicato vent’anni dopo “Althénopis”, nel 2001). Il libro è diviso in cinque parti e i capitoli di ogni parte esibiscono titoli a didascalia, com’è della tradizione ottocentesca del romanzo, e a ribadire il trucco. Le parti sono rappresentative dei luoghi: la Casa di Son Batle nelle prime due, il palazzo del Collegio la terza, lo spazio del trasloco la quarta, la casa dal Tetto Verde la quinta. C’è una concordanza tra luoghi e fatti: diverso il registro delle novelle biografiche o fantastiche, come diversi sono i fabulatori. Pure nessun filo romanzesco le unisce. La narrazione vive, e a volte risplende, del riverbero di ogni tessera del mosaico sull’altra e dell’incrociarsi di voci, lingue. Non è solo scelta di struttura: è di poetica. Fabrizia Ramondino sa la memoria e da lì l’invenzione del vero.
Tra le figure della memoria due spiccano e femminili: la signora di Son Batle e la Nonna – il padre e la madre, “papito” e “mamita”, recitano su un altro palcoscenico. La Signora appare – il verbo non è casuale – sulla nave, all’inizio, in colloquio con il padre e console, a cui affitterà la dimora a Maiorca. (Ci sono due frasi e una esortazione del padre che lo fissano sulla carta e inducono la Signora al racconto: «Tutto mi è già accaduto. Non so perché la vita sia così ostinata con me. Sia fatta la volontà di Dio!»). Non vale dire il racconto, ben sì il suo disegno: la Signora è figura del segreto doloroso, e del rigore che solo mitiga il dolore e col tempo diviene disciplina dello spirito. Ora, il narratore e donna spicca una frase che è la chiave del libro, il suo intento: «Quel segreto del suo corpo e la turpe rivelazione di quella notte si costellarono [il corsivo è mio] in lei in una cosmogonia [idem], non in un tristo complesso». Tale appare lo scrivere della Ramondino in Guerra di infanzia: un dare forma a una costellazione di figure e lingue che sono per lei una cosmogonia – viva ma perduta. È il timbro di voce narrativa della Ramondino: il récit della grande leggenda dell’infanzia maiorchina è il racconto di qualcosa che è andato perduto senza aver avuto la possibilità di compiersi, giusto di palesarsi: la Vita.
La Nonna è una variazione al tema: e costante: torna, anzi, è, pure in “Althénopis”. La Nonna è la voce, il corpo dell’accoglienza: suoi sono i gesti, il sentire dell’anima, non solo del cuore. La nonna per cui solo i poveri sono capaci del vero amore («forse perché conoscono la sofferenza»), che adora il pancotto e trasforma ogni brodo ristretto in quello, che esclama «Che barbarie!» a ogni notizia della guerra in corso e dice Napoli sempre più bella, la settima meraviglia del mondo. La nonna e le sue cinque sorelle, che poi sarebbero quattro ma la nonna parla di sé come altra, una delle sorelle: un’altra costellazione, e presto trasformata per metamorfosi: sono nella cosmogonia di Titita bottoncini a forma di perline: «Che anime erano i bottoni? Me lo chiesi a lungo, perché era fuori di dubbio che i bottoni fossero delle anime, soprattutto quelli rotondi, con il loro piccolo lucore». Una costellazione in miniatura. L’infanzia di guerra di Titita è preludio senza sortilegio.
La vera protagonista è il narratore, la signora di penna che prova il puzzle della sua vita e si interroga in silenzio. Cerca una risposta al suo presente, e non trova pace. Così mette in bocca a Titita delle considerazioni sul puzzle che sono di lei, adulta: e fanno un ritratto in controluce e la figura di un destino: niente di più o di meno che, di nuovo, la Vita. «Quel senso di perfezione non più perfettibile che provavo alla fine del gioco, quando la figura era stata ricostruita per intero e risultava identica al foglio guida, raramente la provo oggi nel ricostruire le cose della mia infanzia. Avverto piuttosto nell’affrontare questa ricerca, la stessa inadeguatezza che provavo nel tentare i puzzle più difficili, dinanzi ai quali a volte mi ritiravo sconfitta». Sa tanto di consuntivo e sconfortato – ma c’è di più, ed è il bandolo del garbuglio. «Tuttavia pure quella perfezione non più perfettibile, quando il puzzle riusciva, mi trasmetteva un senso di vuoto e di stizza; poiché da un lato non c’era nient’altro da fare, dall’altro quella ricostruzione corrispondeva esattamente a un modello preordinato, concepito da terzi, sicché quel gioco, qualunque fosse il suo esito finiva sempre per farmi sentire intrappolata. E a infrangere la sua legge, a uscire dalla trappola, ci si ritrova nel caos e nel vuoto: una trappola diversa». Tutto chiaro: inutile dire e commentare, tanto la metafora è scoperta.
Fabrizia Ramondino è scrittore di singolare identità e di indole poco accostante: la sua prosa non dà confidenza, non si offre all’appetito del leggente: esige un lettore. Non c’è spazio per amori molesti e simile buzzonaglia, le abilissime orchestrazioni di emotività esacerbate e le esibizioni di virulenze femminili. La giovin signora dall’infanzia divisa in tre lingue – italiano, castigliano, maiorchino – padroneggia l’italiano intelligente della tradizione, e col piglio dello scrittore che sa il suo luogo. La narrazione in forma di mosaico e fastosa di memoria di una infanzia irrevocabile e selvatica, in guerra per preveggenza e stizza, vive del sortilegio di una lingua capace di tutto meno che della abilità e la menzogna dello scrivente consumato. Fabrizia Ramondino era tutt’altro, e gli va riconosciuto. Voleva una lingua narrativa in concordanza al suo tempo, infido di pozze di pesanteur in cui a volte è passata. Pure la giovin signora l’ha fatto a testa alta – non è poco.