La prima volta in cui morì qualcuno di caro che non fosse un parente, avevo ventott’anni. Morì durante le vacanze di Natale, e quindi il funerale era il ritorno da Cortina di un po’ tutti quanti. Non vedevo il morto, che qualche anno prima aveva avuto un turno da grande amore nella mia rutilante vita sentimentale, da qualche anno, ma conoscevo i suoi amici, e sapevo quanti di quelli davanti alla chiesa di Trastevere lo conoscevano a malapena.
C’era abbastanza neve?
Noi adesso ripartiamo.
Noi abbiamo preferito il caldo.
Il funerale come riepilogo mondano m’indignò talmente tanto che non sono mai più andata a un funerale. Tuttavia, non servì a farmi prendere atto che succede: si muore.
Pochi anni dopo, stavo intervistando un regista americano su una poltroncina della Rai, in attesa che lui entrasse in uno studio di registrazione. A me non era piaciuto il suo film, a lui non stavo piacendo io: non era una gran conversazione. Non ricordo perché mi disse che pensava ogni giorno alla morte da quando aveva dodici anni. Obiettai qualcosa di stupefatto. Lui mi guardò con disprezzo: crede che per pensare continuamente alla morte si debba essere Woody Allen? Cercai di dargli ragione, ma probabilmente si capiva che non ci credevo: ma chi ci pensava mai, alla morte.
Poi succede quella cosa che dice Martin Amis nella “Vedova incinta”: che a un certo punto la vita si assottiglia, ti sembra non ti rimanga niente, ma poi torna a popolarsi di nuovo, perché nel paesaggio è comparso un nuovo continente, e quel continente è il passato.
Solo che, per quanto il paragrafo di Amis sia la cosa che ho più citato negli ultimi anni, contiene due errori. Uno è la scadenza temporale: dice che succede intorno ai cinquant’anni, ma giuro che succede a quaranta. E l’altro è che la vita che sparisce è una sensazione inestricabile dal passato che incombe. È quel metro che Renato De Maria regala a Nanni Moretti non ricordo mai se in “Aprile” o in “Caro diario”: hai già vissuto cinquanta centimetri, te ne restano trenta.
Me te ne restano trenta? Perché – mi contraddico, contengo tempo libero e il lusso di passarlo a rimuginare – gli ultimi anni li ho passati a dire che era ora di finirla con questo feticcio dell’immortalità. La prima è stata Daria Bignardi (brava: non è da tutti aprire un filone culturale), e da allora non c’è giorno che non ci tocchi lo stuporone d’un orfano adulto: lasciate vi racconti il sorprendente trauma della morte di mio padre, che m’ha colto alla sprovvista quand’avevo appena sessantacinque anni. Non muore più nessuno, sospiro da anni. Povera Inps, sospiro da anni.
Poi, martedì sera, avevo organizzato una telefonata con Natalia Aspesi che, su Radio1, ci spiegasse cosa pensare del cappottino bianco di Salvini, così simile ai risultati estetici di quando al liceo ci dicevano che con le cose aderenti si sembrava meno culone che col maglione legato in vita.
Natalia tra qualche mese compie 93 anni, è un patrimonio nazionale, ma soprattutto è una mia amica: non ha il permesso di morire. Natalia è anche la donna più lamentosa ch’io conosca. Mi ricorda il mio aneddoto preferito sulla mia nonna paterna che, quando le dissero che uno dei suoi figli, men che cinquantenne, era improvvisamente morto, rispose: eh, ma io ho un giradito che mi fa un male.
Quando con Giancarlo Loquenzi, conduttore di Zapping, abbiamo deciso d’invitarla, ho detto: vedrai che ci bidona, lo fa sempre, dirà che sta per morire, lei sta sempre per morire, avrà un giradito e lo considererà invalidante. Invece Natalia ha risposto puntuale alla telefonata della regia, ha salutato con voce squillante, e poi ha detto: sono positiva al Covid, potrei morire in diretta. Stavo per svenire, competitiva come sono, in diretta.
Nelle ventiquattr’ore successive, mi sono agitata moltissimo. Un po’ perché noialtre con l’ego ingombrante riusciamo a rendere affar nostro anche la salute degli altri; e un po’ perché insomma, va bene che è immortale, ma non è che saperla positiva sia proprio tranquillizzante. Ieri pomeriggio ho chiamato uno dei miei più cari amici, anche lui ottantenne (sono amica solo di chi ha cose da insegnarmi, quindi dei vecchi). Era positivo anche lui.
E quindi, dopo due anni che chiunque – dal direttore de Linkiesta a Roberto Burioni, dal mio portiere al barista che mi fa il cappuccino – mi dicono che disgraziati siano quelli che non si vaccinano, e io sbuffo ma chi se ne importa, facciano quel che vogliono, mica possiamo illuderci d’essere immortali, improvvisamente m’è bastata una sordida giornata di preoccupazione e malumore per capire due cose.
Che sì, bisogna pur morire, perché l’Inps fino a 105 anni non può averci in carico: ma questo non vale per i miei amici, per i miei amici vedete di sbrigarvi a trovare la soluzione. Andiamo su Marte e ancora non esiste l’immortalità? Non dico sia urgente quanto un vaccino per le mestruazioni, ma quasi.
La seconda cosa che ho capito è che Nora Ephron aveva torto. Una volta mi disse che odiavamo la vecchiaia perché ci avvicina alla morte, ma non è mica vero (e infatti lei è morta molto prima dei miei amici vegliardi). Ieri è morto un attore trentasettenne, e mica se lo aspettava dalle rughe intorno agli occhi e dalle coronarie che gl’invecchiavano. Si muore a casaccio, è questo che rende la morte irricevibile. Si muore a casaccio, e senz’avvisare: se non m’avvisi che tra sei mesi muoio, come faccio a sapere che devo sbrigarmi a lasciare la grande opera con cui vincere lo Strega postumo?
Una liceale ieri, su Twitter, mi ha scritto che ho un piede nella tomba. Mi sono fermata cinque secondi a interrogarmi: è perché è consapevole dei valori del mio colesterolo e della mia pressione, e sa che ogni piano di scale potrebbe uccidermi; o è perché c’è un’età così meravigliosamente inconsapevole dell’affaticamento del sistema pensionistico da considerare una cinquantenne già pronta per un bel funerale che serva anche da ritrovo dopo la settimana bianca?