Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times World Review in edicola a Milano e Roma e ordinabile qui.
——————————————
Nell’ambito delle democrazie occidentali, e ancor di più nel contesto dell’Unione europea, i movimenti politici indipendentisti (o comunque fautori di un ridisegno dei confini nazionali) sono sempre stati considerati populisti. E in effetti, in un periodo storico in cui molti Stati nazionali andavano volenterosamente diluendosi in un contenitore più grande (l’Unione europea, appunto) e cercavano di trovare i minimi comuni denominatori attraverso cui distillare una shortlist di valori condivisi, l’adagiarsi sulla volontà di rimarcare invece le differenze, di circoscrivere comunità più piccole, di richiudersi all’interno di un recinto identitario e di ritagliare un “noi” restrittivo in opposizione a un “loro” da tenere a distanza si mostrava oggettivamente come un tentativo di mutilazione dell’idea che tutti fossimo soprattutto europei, senza distinzione di etnia, lingua, religione e tradizioni culturali.
Tanto più che a chi vuole farsi interprete di un “popolo oppresso” viene sempre comodo indulgere nelle affermazioni più semplicistiche e quindi in slogan efficaci e populisti, innervati di una buona dose di rivendicazioni un po’ grette e di facile presa, secondo le infinite variazioni regionali intorno al tema del “Roma ladrona” e dell’Espanya ens roba.
Insomma, i partiti indipendentisti offrivano perlopiù chiusura invece di apertura, diffidenza invece di fiducia, rivendicazioni relative al passato invece di un progetto rivolto al futuro, la difesa della “roba” invece della solidarietà, il vittimismo invece dell’ottimismo, il vagheggiamento di qualche orizzonte diverso e velleitario (di destra o di sinistra) invece di un’ adesione a un orizzonte concreto e in costruzione (quello dell’unità europea). In più, spesso, i movimenti indipendentisti non erano esenti da venature di xenofobia e non erano estranei a qualche fake news. E, qualche volta, giustificavano la violenza o addirittura la lotta armata.
Poi però, in tutta Europa, populismi di tutt’altra natura, a destra e a sinistra, hanno cominciato a raccogliere crescenti consensi. L’euroscetticismo è andato diffondendosi e diversificandosi, contagiando soprattutto gli ultimi arrivati nell’Ue. E anche il nazionalismo ha rialzato la testa. Si tratta di un nazionalismo che non si manifesta più come il tentativo di emanciparsi dal dominio di qualche altro Stato o come la volontà di far prevalere la propria nazione sulle altre. Questo nazionalismo reloaded esprime invece il desiderio di recuperare la propria sovranità che è stata sottratta da strutture sovranazionali, come l’Unione europea, che spesso si suppongono manovrate da occulti burattinai. E questa sfumatura tutta particolare del nazionalismo della nostra epoca è stata denominata “sovranismo”.
L’esempio più eloquente di sovranismo è stato forse, fin dal suo nome, lo United Kingdom independence party, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito di Nigel Farage. Indipendenza? Indipendenza??? Ma indipendenza da che cosa? Dall’Unione europea! Gli elettori britannici non hanno ritenuto che questa rivendicazione fosse il grottesco scimmiottamento di un qualche movimento irredentista che avrebbe potuto essere attivo in una colonia ancora in cerca di emancipazione o in una regione insofferente al giogo imposto da un feroce autocrate. Anzi, a quasi il 52 per cento degli elettori del Regno Unito il grido di dolore di Farage è sembrato giustificato al punto da votare “Leave” al referendum sulla Brexit del 2016 e da fare bye-bye con la manina all’Ue.
Il diffondersi dei fenomeni populisti ha impresso una tale rotazione al mondo politico europeo che ora la fenditura più profonda che lo attraversa non è più quella che separa la destra dalla sinistra, i conservatori dai progressisti, i popolari dai socialisti ma quella che divide chi (conservatore, democristiano, liberale, verde, socialista e qualunque altra cosa) aderisce al modello della democrazia occidentale e ai suoi valori fondanti, di cui l’Unione europea, pur molto perfettibile, è uno sbocco naturale, e chi invece – da sinistra, da destra o dal grande boh vaffanculista e casaleggiano da cui sono usciti i Cinque stelle – si consideri il vero portavoce del popolo e voglia quindi mandare a gambe all’aria lorsignori o sventare una qualche grande cospirazione internazionale o fare “piazza pulita” di qualcuno o qualcosa o comandare a casa propria o costruire qualche impossibile altro-mondo-possibile o aprire come una scatoletta di tonno ogni istituzione o scovare ed eliminare il neolibbberismo che ovunque si annida o salvare il pianeta dalla mafia LGBT+ e da tutte le altre perfide lobby oppure ancora, da ultimo, costeggiare chi si ribella alla dittatura sanitaria e alla grande truffa globale ordita da Big Pharma.
Nel corso di questa grande rotazione del mondo politico europeo, è cambiata molto anche la collocazione relativa di alcune antiche forze indipendentiste, quelle cioè che sono rimaste più o meno fedeli alle istanze originarie e che non si sono spinte a bordo della loro ruspa a cercare voti fino a Santa Maria di Leuca. Certo, una cospicua quota di populismo rimane consustanziale a chi voglia fornire ai propri elettori parole d’ordine facilone che siano capaci di rafforzare il desiderio di staccarsi da uno “Stato oppressore”. E rimangono ancora numerose le sovrapposizioni tra la demagogia e l’indipendentismo, perfino dal punto di vista nominalistico: alle ultime elezioni spagnole, ad esempio, la formazione della sinistra indipendentista catalana Esquerra republicana de Catalunya si è presentata in coalizione con un altro piccolo gruppo della sinistra indipendentista che ha scelto di chiamarsi proprio Sobiranistes (e che è stato fondato, non a caso, da due ex appartenenti a En Comú-Podem, la “sezione” catalana di Podemos, il movimento che è stato una delle maggiori fabbriche del populismo iberico).
Eppure, limitandosi a quattro storici indipendentismi europei, quello basco e quello catalano da una parte e quello scozzese e quello nord-irlandese dall’altra (anche se tecnicamente i cattolici separatisti dell’Ulster non sono indipendentisti, perché puntano a unirsi alla Repubblica d’Irlanda), si vede come il panorama sia molto cambiato.
C’è più populismo, infatti, nel centristissimo e ultrapoliticista Partito nazionalista basco e nei demagogici ma supereuropeisti indipendentisti catalani di sinistra e di destra o ce n’è di più nei loro più aspri nemici, i neo-franchisti di Vox? In altre parole, c’è più populismo in Carles Puigdemont e Oriol Junqueras, che chiedono usbergo a ogni piè sospinto a tutte le Corti europee disponibili in nome proprio dei valori europei di cui si dicono portatori, o nei turbonazionalisti del terzo millennio di Vox? Vox è un partito il cui presidente Santiago Abascal, alleato di Giorgia Meloni, ha detto ineffabile in Parlamento che il governo di Pedro Sánchez è il peggiore degli ultimi ottant’anni per venire poi corretto dal leader del Partito popolare Pablo Casado – «degli ultimi quarant’anni, signor Abascal, degli ultimi quarant’anni» – dal momento che Casado è, sì, di centrodestra ed è, si, il capo dell’opposizione al governo socialista ma, al contrario di Abascal, ha ben chiaro che il governo di Sánchez non può essere in alcun caso definito peggiore di quello del dittatore Francisco Franco.
Oppure c’è più populismo nei discepoli di Nigel Farage, impavesati nell’Union Jack e parimenti terrorizzati dagli idraulici polacchi e dai trinariciuti tecnocrati europei pronti ad attraversare la Manica per soggiogare la Gran Bretagna, o ce n’è di più nello Scottish national party che guarda ancora l’Unione europea con gli occhi a forma di cuore, è piuttosto accogliente verso chi arriva da fuori e non ha mai paventato che da Bruxelles avrebbero imposto per legge il raddrizzamento dei manici degli ombrelli o il kilt in tinta unita?
Linkiesta Magazine + New York Times World Review in edicola dal weekend a Milano e Roma e ordinabile qui.