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In principio furono Creso e poi Re Mida i primi a sperimentare il rischio dell’eccesso di moneta; e poi ne seguirono tanti altri, fino al papiermark di Weimar e alla febbre legata al petrolio negli anni Settanta; ma da più di vent’anni le sue tracce svaniscono. Anzi, in molti Paesi evoluti si è cercato per decadi di accenderne un po’: l’inflazione è stata a lungo una miccia bagnata. Ma negli ultimi mesi la combustione sembra abbia preso forza.
Il rimbalzo della domanda di beni e servizi
Il mondo è oggi di fronte a un fenomeno quasi sconosciuto ai trader che hanno meno di 40 anni e agli algoritmi che li stanno rimpiazzando. Sono tanti i fattori di alimentazione. Il rimbalzo della domanda di beni e servizi post pandemia è già in atto. Si tratta di una ripresa a V come è successo anche dopo il crac Lehman del 2008. Ma è una V maiuscola. Dopo il tracollo record dello scorso anno (-3 per cento del Pil mondiale contro il -0,1 per cento del 2009, che era già una enormità) anche il rimbalzo del 2021 sarà a livelli storici (tra il 5 e il 6 per cento). Del resto la capacità produttiva è intatta e l’iniezione di liquidità delle Banche centrali ha preservato l’accesso al credito e alla disponibilità monetaria.
Per di più, un anno e mezzo di pandemia, con le politiche monetarie paracadutate dagli elicotteri e combinate alla chiusura di svaghi e turismo, hanno determinato un accumulo di risparmio a livelli record con oltre 5,4 trilioni di dollari pari al 6 per cento del Pil. Se tutta questa capacità di consumo venisse liberata sul mercato si determinerebbe – senza ulteriori stimoli – il tasso di crescita più elevato dagli anni Sessanta.
Ma esistono due ulteriori elementi che daranno una spinta ai prezzi: il primo sono i Recovery plan che nei diversi Paesi sono stati annunciati per ridare crescita all’economia e facilitare il riassorbimento del debito, un Super Piano Marshall globale. Gli Stati Uniti mettono a disposizione due trilioni di dollari, l’Europa 750 miliardi di euro e la Cina 500 per i prossimi quattro anni. Il secondo è un altro fenomeno di discontinuità, tipico dei nostri giorni: la transizione verde che è stata annunciata in molte economie e che viene costantemente rilanciata con target da raggiungere in tempi sempre più ravvicinati.
Insomma, siamo nel pieno della ricostruzione postbellica (anche e soprattutto psicologica), che già di per sé è un bel doping keynesiano per la crescita economica, e ci aggiungiamo – baldanzosi – il completo ribaltamento della nostra struttura energetica e industriale. E mentre per molti fattori suindicati si può ipotizzare che l’effetto inflattivo sia temporaneo (l’ebbrezza di un popolo che torna a uscire di casa e viaggiare o consumare), la rivoluzione verde, se realizzata fast track, avrà impatti inflattivi strutturali.
Le implicazioni della transizione al net zero
Infatti la transizione al net zero, se non calibrata, stravolgerebbe in trent’anni la catena di supply, trasporto e consumo energetico e industriale, la domanda privata – sia domestica sia mobile – che abbiamo sedimentato in 250 anni. Nuove fonti, motori, veicoli, strumenti di stoccaggio, nuove reti con diversi nodi di immissione, un nuovo vettore energetico quasi inedito (idrogeno). E molti più materiali e minerali per poterla realizzare. Le implicazioni in termini di costo sarebbero numerose.
Il primo rischio risiede nella pressione sul prezzo dei materiali necessari per costruire le nuove tecnologie. Infatti l’energia verde nasconde nella fase di costruzione molta più materialità di quella che si potrebbe immaginare.
Si pensi, ad esempio, agli impianti eolici e solari che secondo la Iea, nel suo scenario Net Zero, sono previsti crescere – in termini di capacità – da 1.500 GW di oggi a 8.000 GW al 2030 (a un tasso di crescita medio del 17 per cento all’anno).
La costruzione di un parco eolico da 100 MW richiede 30.000 tonnellate di minerali ferrosi (l’equivalente di quattro torri Eiffel), 50.000 tonnellate di cemento e (sic!) 900 tonnellate di plastica e resine. Per il solare di taglia analoga la componente di ferro e acciaio triplica mentre la quantità di cemento si dimezza. Sono tutti consumi nuovi che si aggiungerebbero all’uso tradizionale di queste materie.
Solo nell’ultimo decennio, la quantità di minerali per un megawatt di nuova capacità è aumentata del 50 per cento, con l’aumento progressivo del peso del power green. Produrre il nuovo comporta costruire alla vecchia maniera
C’è poi l’effetto ulteriore sulla costruzione della rete di trasporto e stoccaggio delle nuove tecnologie: l’integrazione di fonti intermittenti nei sistemi elettrici, o la penetrazione di nuovi vettori energetici come l’idrogeno, impone nuove reti di trasmissione.
Si stima che nel mondo ci siano gasdotti per 1 milione di chilometri, mentre per il petrolio la lunghezza della rete è più ridotta perché il greggio viaggia in gran parte via nave. Ma nuove reti elettriche a idrogeno e di raccolta di carbonio dovranno essere costruite perché solo in parte potremmo riutilizzare la ragnatela esistente.
I siti di produzione verde sono lontano dalle città (e sempre più offshore) ed elettricità e molecole nuove (idrogeno o carbonio da stoccare) non condividono le stesse modalità di trasporto dei vecchi idrocarburi. Insomma, per ogni migliaio di chilometri di nuove condotte abbiamo un migliaio di tonnellate di domanda di acciaio per le tubature. O di tonnellate di rame per gli elettrodotti.
A questo dobbiamo aggiungere gigafactory per la costruzione di batterie (quella di Tesla in Nevada è il più grande sito industriale al mondo e la Iea ne richiede venti nuovi all’anno nel decennio), energy storage o elettrolizzatori. Tutto nuovo, e tutto fisicamente impegnativo.
Un terzo elemento di inflazione giace all’interno della crosta terrestre e deriva dalla magia del mondo elettrico: sono i minerali necessari per la generazione o per lo stoccaggio degli elettroni.
Con le fonti fossili l’energia che usiamo è molecolare (si libera bruciando e rompendo i legami chimici), depositata nel sottosuolo, a 2-5 chilometri di profondità quando parliamo di idrocarburi. È energia da stock. Si cattura con l’equivalente di una cannuccia (a volte pieghevole come quella dei cocktail) ma non comporta, se parliamo di greggio e gas, una intensa attività mineraria.
Con le fonti rinnovabili l’energia è invece un flusso di elettroni da catturare e usare al volo. Passato l’attimo, si torna alla quiete energetica. Ma vento e sole vengono utilizzati per generare un campo elettrico solo grazie alle proprietà magnetiche di alcuni minerali. Si tratta di 17 elementi della tavola periodica (gli sconosciutissimi lantanidi e gli altrettanti ignoti scandio e ittrio) che usiamo in maniera massiva di fatto da poche decadi. A questo, aggiungiamo litio, cobalto, manganese, nickel, grafite e rame e abbiamo il quadro di quello che ci serve per creare il flusso elettrico e per stoccarlo in batterie.
Sono detti minerali critici o rari, ma rari non sono. Lo diventano perché sono all’interno di conglomerati di rocce (non come il carbone, che è un giacimento più concentrato) e nascono da processi di mining molto impattanti e quindi limitati a poche aree del mondo. Volete un chilo di vanadio? Dovete lavorare 8 tonnellate di roccia; per un chilo di gallio di tonnellate ce ne vogliono 50 e per il lutezio ben 200. E lavorare vuol dire fare mining del suolo e “raffinare” le rocce con solventi in diversi cicli di lavaggio.
Se il petrolio ha una concentrazione geografica in una regione, la Cina è il Medio Oriente delle terre rare con due terzi della produzione mondiale.
Le macchine elettriche sono l’esempio più tangibile di questa ottocentesca materialità del nuovo mondo energetico: unendo insieme motori elettrici e strumenti di elevata digitalizzazione un EV (veicolo elettrico, da electric vehicle) è di fatto un concentrato di minerali critici: 200 kg del suo peso sono minerali necessari alla batteria, alla sua protezione e alla magia magnetica che la rende silenziosa e a zero emissioni (se ovviamente trascuriamo il fragore e le emissioni dell’attività a monte della sua catena di produzione).
Si tratta di un quantitativo pari a sei volte quello presente nelle auto tradizionali. E anche negli impianti eolici o solari si viaggia tra 4 e 8 volte i minerali presenti negli impianti a gas di analoga dimensione.
Questi minerali sono presenti in buona parte anche nei nostri prodotti elettronici, nelle reti elettriche, negli elettrodomestici e quindi l’effetto di una pressione inflazionistica per la produzione di queste materie ricadrebbe su molti settori di consumo.
Gli investimenti di lungo termine ancora carenti
Infine abbiamo una struttura energetica tradizionale che andrà progressivamente in tensione per la carenza di investimenti di lungo termine sulle fonti che oggi pesano per l’80 per cento dei consumi finali. La prospettiva di un cambiamento radicale del sistema energetico produce già di fatto una transizione. Investire su carbone, petrolio e forse gas è percepito come potenzialmente a rischio e il ritorno temporale degli investimenti deve diventare più rapido.
Ma è un bilanciamento complesso, soprattutto se la produzione ha un suo declino naturale, compreso, ad esempio, tra il 7 e il 10 per cento per il greggio o tra il 4 e il 5 per cento per il gas. Insomma, lavorare con il just in time per i combustibili fossili potrebbe diventare una equazione impraticabile e, di colpo, potremmo scoprire che l’offerta sta scendendo più rapidamente di quanto la domanda venga effettivamente spiazzata dalle nuove fonti. Con effetto a cascata sui processi industriali, sul costo di trasporto e sui beni finali.
E questo spingerebbe all’insù il costo della transizione che, come detto, è molto più industriale ed energivora di quanto si pensi.
Qualche osservatore ha già colto il nesso: «Sarà una sorpresa dopo trent’anni di discesa ininterrotta. E potrà essere uno shock per molti. Se la nostra unica solu- zione sarà creare un mondo green avremo un’inflazione ancora più grande perché non abbiamo ancora le tecnologie. A un certo punto diventerà una questione politica: accetteremo una maggiore inflazione per accelerare la trasformazione energetica?».
È Larry Fink, Ceo di Blackrock – il più grande fondo di investimenti al mondo – a esplicitare un legame che in molti pretendono di ignorare.
Insomma, dopo anni di tentativi abbiamo forse trovato il combustibile per accendere l’inflazione. È verde e apparentemente non produce emissioni.
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