Le attuali tensioni fra Russia e Nato sono senza precedenti. Comunque vadano le trattative a Bruxelles e Ginevra, è probabile che i 100.000 soldati schierati al confine, l’ultimatum di Mosca e il pugno di ferro del Cremlino contro le opposizioni, in patria così come in Bielorussia e Kazakistan, lasceranno un segno indelebile nelle relazioni fra Russia e Occidente.
Meno irrituale è l’anemica reazione italiana al precipitare degli eventi. La posizione di Roma dopo la crisi ucraina è sempre rimasta piuttosto coerente, indipendentemente da chi si è succeduto al governo del paese. Nonostante alcune boutade filorusse, soprattutto da parte dei governi Conte (ma in misura minore anche da Renzi), l’Italia ha adottato una linea di inossidabile cautela: da un lato si condannano senza appello le politiche repressive e le avventure internazionali di Mosca, dall’altro si frenano misure più mordenti, cercando di tenere aperto un canale di comunicazione con la Russia (per ora largamente ignorato dal Cremlino). In questo Roma non si discosta quasi per niente dal consenso instauratosi nella coppia franco-tedesca, che fino all’ultima crisi al confine ucraino determinava la politica europea verso il nostro vicino orientale. La vera differenza riguarda forse la franchezza un po’ disfattista con cui il governo italiano sembra voler stemperare le aspettative del pubblico europeo.
Rassegnazione armata
Nell’ultima conferenza di fine anno Mario Draghi ha minimizzato le opzioni che l’Europa – e l’Italia – hanno per rispondere alle richieste di Mosca (esse includono un veto contro l’ammissione di nuovi stati membri e il ritiro di forze alleate dai paesi entrati dopo il 1997 nell’Alleanza Atlantica). Secondo il presidente del Consiglio, che ha tagliato corto sull’Unione Europea in quanto non dotata di forze militari proprie, la Nato sarebbe infatti concentrata in altre regioni del mondo e quindi non in grado di assemblare una risposta militare adeguata alle minacce russe.
Dietro a questo velo di rassegnazione c’è una realtà un po’ diversa. Se sul piano politico l’Italia è spesso stata accusata di appeasement (in un colloquio riservato un alto funzionario del governo Merkel ha parlato caldamente dell’Italia come «uno stato con una politica pragmatica nei confronti della Russia, proprio come noi»), sul piano militare si sta facendo molto per rispondere al rafforzamento della posizione russa del Mediterraneo. A differenza della Germania, da sempre cauta nell’alterare il proprio assetto militare, l’Italia si è imbarcata su un programma di riarmo ed espansione piuttosto grande.
Per il 2021 l’osservatorio MIL€X ha rendicontato un aumento enorme delle spese militari, un +5,4 per cento impensabile fino a pochi anni fa. Nei piani della Difesa, ben 12 miliardi di euro sono riservati all’acquisto o sviluppo di nuovi sistemi d’arma (aerei, carri, navi e simili), inclusi 2 miliardi per lo sviluppo di un drone Medium-altitude long-endurance insieme alla francese Dassault e alla franco-tedesca Airbus. Allo stesso tempo si è deciso di autorizzare l’armamento dei droni Reapers già in dotazione all’Aeronautica Militare e di acquistare missili cruise a lungo raggio per le fregate e i sottomarini della Marina Militare, probabilmente Tomahawk americani con gittata da 1600km.
Un impero russo nel Mediterraneo?
Le giustificazioni di un carrello della spesa così pieno sono numerose. Tuttavia, come spiegato a maggio del 2021 a Repubblica dall’allora comandante della Marina Giuseppe Cavo Dragone, oggi capo di stato maggiore della Difesa, la motivazione principale è la necessità di aumentare la capacità italiana di proiettare forza nel Mediterraneo, e in particolare poter colpire possibili nuove basi russe in Libia e la rafforzata base navale a Tartus, in Siria. Sono ormai diversi anni che la Russia ha aumentato la propria presenza in Nord Africa e Medio Oriente, prima intervenendo a sostegno del regime di Bashar al-Assad e poi fornendo il maresciallo Haftar con uomini e materiali nella sua corsa per rovesciare il governo di Tripoli. A ciò si aggiunge il possibile sbarco in Mali dei mercenari della società Wagner, controllata dall’oligarca Prigozhin e sanzionata dall’Ue come estensione ufficiosa delle forze armate russe.
Alcuni analisti vedono in questi episodi la creazione di una sorta di impero neocoloniale, che in contesti come il Mali o la Libia approfitta del vuoto lasciato dai paesi occidentali per avanzare gli interessi russi (tipicamente la vendita di armi o il commercio di risorse naturali). Per questo vengono viste con forti preoccupazioni la comparsa di basi navale russe in luoghi come il Sudan, sulla rotta nevralgica fra Suez e Oceano Indiano, o in Siria, dove un deputato della Duma ha proposto l’ancoraggio di navi armate con i nuovi missili ipersonici. Queste armi innovative, viaggiando a velocità altissime, potrebbero colpire buona parte del Mediterraneo in pochissimo tempo.
L’aumento delle spese militari italiane, che certamente va a coprire anche vecchie carenze delle forze armate, è pensato proprio per contrastare quella che è vista come la creazione di avamposti con cui la Russia vorrebbe strappare il Mediterraneo dalla supremazia aeronavale Nato. In particolare, si cerca di rispondere alla possibile creazione di bolle impenetrabili alle forze alleate, protette dall’avanzata antiaerea russa e da cui le forze russe potrebbero difendere la propria posizione annullando i tradizionali vantaggi della Nato su mare e in aria.
La vera strategia russa
Questa concezione della politica russa è tuttavia un travisamento di quella che è, per quanto ne sappiamo, la dottrina strategica che guida le decisioni di Mosca. Come suggerito dall’esperto di forze armate russe Michael Kofman sul sito specialistico War On the Rocks, è sbagliato pensare alla strategia russa come un tentativo di colorare la mappa di rosso o di affermarsi come potenza imperiale nel Mediterraneo. A differenza di molti analisti occidentali, la Russia non crede troppo nella propria capacità di creare basi inespugnabili e difendibili in caso di guerra. Piuttosto, queste basi servono come potenziali basi di lancio per attacchi mirati contro i punti nevralgici (logistici e comunicativi) dell’Alleanza, anche utilizzando sofisticate capacità elettroniche, e provare a tenere lontana la Nato dal Mar Nero e dall’entroterra russo. La Russia intende i propri avversari come un reti politiche e militari che non devono essere annientate, bensì paralizzate e rese incapaci di montare una risposta coordinata.
In poche parole, in caso di guerra le forze armate russe nel Mediterraneo sarebbero soprattutto vittime sacrificali, incaricate di scompigliare le operazioni e strutture politiche in Italia e Grecia (la Turchia è un caso a parte che andrebbe affrontato separatamente).
Alla luce di tutto ciò, quanto è giustificato l’aumento della spesa militare italiana? La politica di riarmo italiana può essere contestata per motivi ideologici, ma è indubbio che le capacità acquisite sarebbero estremamente utili nel caso l’Italia diventi il principale stato Nato a dover difendere un fronte secondario nel Mediterraneo centrale, almeno nel contesto di una guerra europea contro la Russia.
Prepararsi alla guerra dimenticando la politica
Ci sono poi tutti gli scenari al di sotto di una vera e propria guerra, che piuttosto che uno scontro diretto fra forze italiane e russe contendono il predominio politico nella regione. Per l’Italia il Mediterraneo allargato (cioè con Sahel, Mar Rosso e Africa sahariana) rappresenta il principale teatro d’azione globale, soprattutto per insulare l’Italia stessa da rischi politici come il terrorismo e l’immigrazione. La presenza militare, in questo senso, è una maniera per affermare la propria presenza e darsi opzioni operative per intervenire sul terreno. Per la Russia, invece, il concetto di Mediterraneo allargato comprende tutt’al più il Mar Nero, e Mosca non sembra veramente avere una grande strategia per affermarsi sistematicamente nella regione.
Piuttosto, la Russia si presenta ormai come una sorta di service provider per autocrazie sparse per il mondo, offrendo supporto militare ed economico a basso costo (e senza troppe condizionalità) ai dittatori locali, specialmente quelli contestati da opposizioni interne. In parte serve per potersi presentare come potenza globale, ma anche per rispondere a una semplice logica politica: è meglio avere il polso della situazione e poter tenere lontano gli Stati Uniti e l’Europa dal più alto numero di zone caldi possibile, anche quando Mosca non ha un interesse diretto nella regione. L’arrivo dei mercenari russi in Mali, come l’apertura della piccola base navale in Sudan, è stato accolto con isteria nelle capitali occidentali, ma per la Russia si tratta per lo più di partite secondarie rispetto al confronto con la Nato in Europa orientale.
L’isteria europea è comprensibile e sarebbe quasi condivisibile se, come enfatizzato da opinionisti conservatori italiani, l’interesse nazionale risiedesse nella difesa dei pozzi di gas e altre infrastrutture energetiche fossili nel Mediterraneo (come, ad esempio, accusa Greenpeace in un recente rapporto sulle missioni di pace italiane, non completamente a torto). D’altra parte, è difficile immaginarsi come un aumento delle capacità militari possa contrastare il supporto russo alle autocrazie mediterranee. Mentre paesi come la Francia cercano di battere la Russia al suo stesso gioco, chiudendo gli occhi agli abusi dei diritti umani, l’Italia avrebbe ampi spazi per presentarsi come modello di sviluppo eco-sociale e sostenitrice di quei paesi che vorrebbero rifiutare i tipi di autocrazia sostenuti da Mosca.
L’utilità dei nuovi missili cruise, almeno in questo campo, è dubbia.